In uno sketch ormai divenuto un classico, Maurizio Battista narra di come un suo amico, durante una tipica estate romana, lo abbia convinto ad andare a vedere al Teatro Marcello le “tre sonate de Mozza” (probabilmente i tre concerti K 107?). Tra varie battute sugli usi e costumi degli abitanti della Città Eterna, Battista descrive lo spettacolo con i toni che ci si può aspettare, tuttavia tirando imprevedibilmente in ballo a un certo punto il compositore Karlheinz Stockhausen:
«Esce da dentro questo arco, un pianoforte con un signore che suonava e rideva…. Dopo un po’ da dietro escono un signore alto, vestito dell’Ottocento, e pure una signora, ridevano tutti. “Lei conosce le tre sonate di Mozart, caro Marchese Stockhausen?” Oh santa ignoranza, io lo giuro, non sapevo che Stockhausen era un compositore austriaco o tedesco, pensavo che era un modo di dire romano, si dice a Roma “È arrivato ‘sto causen, ma come insulto… tipo, “È arrivato ‘sto fenomeno».
È altamente improbabile sia che Stockhausen abbia mai recitato in costume al Teatro Marcello, sia che abbia eseguito direttamente un’opera di Mozart (tanto meno a Roma in età senile). Il compositore è stato quasi di certo inserito nel pezzo per il modo in cui il suo cognome suona in romanesco.

Battista in generale sta ovviamente ironizzando sull’impresentabilità della musica “classica” (nel senso più lato possibile) per un pubblico popolare (e per giunta romano), se non plebeo, sicuramente “profano”.
Non so cosa avrebbe potuto pensare delle ironie del comico lo studioso tedesco Reinhard Raffalt, che da un lato è stato un grande musicologo e dall’altro un profondo ammiratore del carattere dissacratore del popolo romano, al quale ha dedicato diverse opere, delle quali una delle principali è Concerto Romano del 1955 (purtroppo mai tradotta in italiano).
Di certo lo avrebbe divertito l’ironia becera sul nome di Stockhausen, che per lui era una vera e propria “bestia nera”, tanto da inserire giudizi caustici sulla sua opera in un libello dedicato niente di meno che alla figura dell’Anticristo:
«Prendiamo in considerazione il rapporto tra il presente e la bellezza. Ascoltiamo un breve pezzo del concerto per tre orchestre di Karlheinz Stockhausen, un’opera di musica contemporanea [era il 1966, ndr] tenuta in grande considerazione. Gli esperti ci insegnano che dietro a queste strutture musicali costrette in tempi minimi si celerebbe un gioco altamente intellettuale che l’iniziato, munito di un orecchio particolarmente raffinato, può seguire con estremo piacere. Senza mettere in discussione tutto ciò, l’ascoltatore imparziale deve innanzitutto venire a capo del fantastico guazzabuglio di disgiunte forme sonore e trovare la necessaria pazienza. Il vincolo tra il risuonare della musica e l’orecchio pronto all’ascolto è sacrificato. Ciò che di bello è presente in quest’arte, si rivela soltanto quando si ripercorrono gli spartiti, ossia in un ambito che sta al di là dei suoni. La bellezza – se con ciò si intende un particolare irradiarsi di armonia in coloro che ascoltano -, la bellezza non è qui più rinvenibile, né la si vuole perseguire, si è rinunciato a essa».
Le Gruppen für drei Orchester, apice della Serielle Musik che nella Germania del Dopoguerra stava diventando, dispersa in mille rivoli avanguardistici, una sorta di “Arte di Stato”, per Raffalt non rappresentava un’occasione per una blanda polemica “passatista”, ma la cifra di un’epoca che non voleva reinventare i canoni della bellezza (per il musicologo sinonimo di “armonia”) ma semplicemente abolirli: in due parole, le composizioni di Stockhausen sarebbero rimaste “brutte” in eterno nel momento in cui la rinuncia alla bellezza era per esse programmatica.
Per il commentatore del volume sull’Anticristo (l’unica opera di Raffalt tradotta in italiano) Andrea Sandri, le Gruppen di Stockhasen rappresentano “l’avvento dell’Anticristo nel mondo degli uomini”:
«La musica si confonde con la trama tecnica e scientifica del mondo, con la pretesa di ordirlo e di dominarlo».
Un dato fondamentale che bisogna qui richiamare è che l’intellettuale tedesco si era laureato nel 1949 a Tubinga (non un’università a caso!) con una tesi sulla Problematik der Programm-Musik in Beethoven, Liszt e Richard Strauss, delineando la sua visione estetica anti-idealistica e anti-romantica della forma musicale quale mezzo in grado di comunicare la bellezza, affermando la necessità di una realtà esterna, un oggetto “extramusicale”, che trascenda la musica stessa.
La musica, come la vita, non può essere “autosufficiente”, perché così come la realtà trascende la composizione allo stesso modo il Creatore trascende la realtà: A. Sandri parla direttamente di “possibilità rappresentazionale della musica” e, avendo avuto anche modo di leggere la tesi di laurea dell’Autore, può aiutarci a capire cosa intenda con un esempio concreto, la Alpensynphonie di Richard Strauss, citando direttamente il giovane Raffalt.
«L’attività percettiva sensoriale di colui che ascolta è, in Strauss, una componente non trascurabile della sua tendenza a esprimersi. […] Nell’ascolto, l’ascoltatore fa realmente l’esperienza del cammino del viandante. […] La situazione del soggetto senziente – ossia del compositore che qui e ora fa esperienza – diviene universalmente comunicabile, poiché appartiene in tutto al presente. [….] Con ciò si vuol dire che una rappresentazione retrospettiva soggiacente alla sensazione di cui si è fatta esperienza non soltanto dispone del profilo immaginifico e spirituale del proprio oggetto come qualità del ricordo, ma appartiene alle rappresentazioni delle cose con le quali abbiamo un rapporto corporeo e fisico diretto, anche se ce le rappresentiamo al di là della loro realtà solamente tramite il ricordo».
Il ricordo di una ascesa alpina in Strauss non è un divertissment intellettualistico che si rifà all’indicibile, a un iperuranio non intuibile, oppure un astratto gioco di arabeschi e tecnica compositiva, ma una rappresentazione dell’accadimento che attesta la possibilità che la musica sia in grado di rappresentare il mondo reale e gli eventi che in esso accadono, incluso l’evento cristiano.
Chiarito ciò, resta da affrontare la nota dolente (in tutti i sensi): Raffalt, come si è detto, fu una grande ammiratore del carattere romano, tanto da considerarlo intrinsecamente “armonico”, e da intitolare tutti i suoi volumi dedicati a Roma con un riferimento musicale (con i titoli rigorosamente in italiano, anche se nessuno di essi, come continuo a ricordare, è mai stato tradotto in italiano): Concerto Romano (1955), Fantasia Romana (1959) e Sinfonia Vaticana (1966).
L’Autore non disdegnava la musica popolare romana, come parte integrante di feste e balli ma anche di cerimonie religiose (egli pensava alle processioni), nonostante il suo primo amore sia sempre stato il barocco, che considerava, in riferimento a Palestrina, riflesso della moderatio (il fluire delle singole voci che si integra in un’armonia divinamente bilanciata), a suo parere uno dei pilastri dello stile di vita tipico di Roma. Tutte queste caratteristiche poi a suo parere sarebbero convogliate in una sorta di apparato “katechontico” (questo discorso è però stato affrontato in altra sede).
Ciò che mi preme osservare è che forse Raffalt avrebbe perdonato l’ironia di Maurizio Battista a fronte delle tre presunte “sonate mozartiane”, anche perché da una prospettiva più ampia è necessario osservare come ad aver reso incomprensibile un certo tipo di musica, riducendola allo squallore del cerebralismo, sia stato più lo spirito dei tempi che non l’avvento della plebe sul palcoscenico della storia.
A tal proposito, mi sembra questo il momento adatto per rispolverare una vecchia polemica, sicuramente collegata alle idee estetiche di Raffalt, riguardante il destino di quella che definiamo appunto “Musica classica” nel dopoguerra.
Parto da un’Autore che ha riferimenti molto simili a quelli dell’intellettuale tedesco, l’americano Michael E. Jones, che nel 1994 scrisse un intero libro, Dionysos Rising (“epurato” da Amazon assieme a tutta la bibliografia dell’Autore), per rispondere a una semplice domanda: perché Jim Morrison è più famoso di Arnold Schönberg?
Al posto di Schönberg avrebbe potuto chiamare in causa Stockhausen perché in fondo si tratta di un’evoluzione dell’atonalismo e della dodecafonia nell’applicazione del principio seriale non solo alle note, ma anche alla durata, al timbro, alla dinamica e ad altri parametri del suono: Jones tuttavia fa risalire la rivoluzione al precetto wagneriano dell’abbandono della tonalità, allo scopo di “scatenare tempeste di passione cromatica”.
Più velenoso e pettegolo di Raffalt, il pensatore americano collega l’avanguardia schönberghiana al disordine morale rappresentato dalle sue vicende biografiche, facendo esplicito riferimento al tentativo di sublimazione del tradimento della moglie che il compositore tentò di mettere in atto con Verklärte Nacht (riporto in nota la poesia di Richard Dehmel che ispirò il compositore nella traduzione di M. T. Mandalari [*]):
«Verklärte Nacht sostiene l’ideologia del libero amore, ideologia che esclude che il desiderio sessuale possa scaturire in tragedia. Il calore che “sfavilla da te entro me” [eine eigne Wärme flimmert | Von Dir in mich] d’ora in avanti conquisterà ogni gelosia, ogni convenzione sociale. La notte è al contempo trascesa ed esaltata nella sua essenza: da una prospettiva erotica, ciò significa che tutti abbiamo da “guadagnarci”, che possiamo soddisfare il desiderio impossibile al riparo dalle sue tragiche conseguenze […]. Questa era la speranza da molti condivisa agli inizi del secolo, […] il contraddittorio simbolo delle aspirazioni sessuali nella Vienna fin-de-siècle».
La musica di Schönberg, snobbata dal grande pubblico, ebbe comunque un qualche successo grazie alla promozione di Adorno, che tentò di “ideologizzare” il compositore (ormai in declino), identificandolo come il primo musicista ad aver accettato la “sfida” di Nietzsche. Al di là però delle suggestioni del filosofo (che fantasticava di “demoni dilanianti la tonalità”), a prendere sul serio la dodecafonia fu soprattutto il governo tedesco del dopoguerra, facendone -come si è ricordato all’inizio- una vera e propria “arte di stato”:
«Durante l’era Adenauer la Repubblica Federale Tedesca si incaricò di promuovere la musica moderna d’élite, musica che in verità nessuno aveva voglia di ascoltare. Milioni di dollari furono investiti nell’impresa».
I pionieri del rock, invece di seguire il progetto di Schönberg e farne il loro padrino artistico, gettarono alle ortiche la dodecafonia insieme a tutto il patrimonio classico dell’occidente, e si rivolsero a un nuovo tipo di ordine musicale. Jim Morrison, per esempio, pur proclamandosi poeta del caos, non si avvicinò nemmeno all’atonalismo, anzi esorcizzò immediatamente i “demoni dilanianti” con un ritorno al ritmo:
«Neppure i Doors credettero nella dissonanza. Per rendere apprezzabile il loro messaggio anarchico ad un pubblico meno selezionato di quello dei saloni della Vienna fin-de-siècle, essi dovettero ricorrere nuovamente a quella struttura tonale che i loro padrini musicali avevano disprezzato. Man mano che declinava la sofisticatezza degli ascoltatori, la dissonanza divenne sempre meno adatta come mezzo per emancipare l’Occidente dalla ragione, dalla moralità e dall’ordine sociale. La tonalità tornò in forma semplificata come la serva del ritmo barbarico del rock. Si è trattato di un ritorno del represso, ovvero della tonalità riformulata e resa compatibile con il dionisismo […]. Tipico delle tradizioni sovversive, anche i Doors poterono veicolare il loro messaggio a patto di entrare in contraddizione con la propria “filosofia”».
La conclusione riporta alla mente un passaggio de Il campo dei santi di Jean Raspail sul quale non si è meditato abbastanza, ma che lascia intuire come anche a livello religioso, oltre che artistico e politico, le avanguardie (le “tradizioni sovversive”) si approprino sempre del linguaggio del “nemico” rifiutando puntualmente di fare i conti con tale “schizofrenia”:
«Era un periodo in cui la canzone si trasformava spesso in un piagnisteo di quattro note su se stessi, gli altri, il mondo e tutto il resto. Per stanchezza delle canzoni urlate, non restava che affogare nella dolce melassa dell’infelicità umana, trasposta in musica, molto spesso con gusto. Questo era il rifugio delle anime insoddisfatte, che altro non avevano imparato a fare. Nessuno pensava più a definire la nozione di infelicità in rapporto a se stessi o al passato. Quel mondo si reggeva in piedi solo iniettandosi nelle vene dosi massicce di infelicità, così come un drogato si sostiene con l’eroina. Trovare in sé l’infelicità-base qualche volta non era semplice, ma la cosa non aveva grande importanza; nulla, infatti, può fermare un drogato in crisi di astinenza e le sostanze intossicanti si contrabbandano con facilità. Non sono certo i trafficanti a mancare. Per giunta, in un recesso dello spirito si è sempre annidata la strana speranza di una distruzione totale, unico rimedio alla noia che consuma l’uomo moderno. La Bestia aveva liberato proprio questa speranza, esaltandola in una canzone. In quel momento, s’alzò una voce, purissima e ben modulata: era la voce di un giovane. Gli altri tacquero e ripresero semplicemente l’antifona in coro, come si faceva, un tempo, ai vespri o alla compièta. Notiamo, tra parentesi, che la distruzione del sacro e lo scempio dell’antica liturgia non erano avvenuti per caso. Non si deve credere che i preti avessero eliminato tutto ciò senza sapere che sarebbe risorto sotto un’altra forma. Lo sapevano bene e molti avevano esultato nel consegnare spontaneamente al nemico le loro armi migliori. Il sacro non aveva più bisogno di Dio, la liturgia celebrava soltanto l’essere umano sulla terra e i preti, sbarazzatisi finalmente del fardello divino, avevano potuto riprendere, come tutti gli altri, la condizioni di uomini ordinari».
Per provare a tirare le somme, è pacifico che non si possa tacciare di semplice “ignoranza” chi, come Maurizio Battista, non può più comprendere un qualcosa che in verità tutti noi esperiamo in maniera “mediata”, anche chi si illude di custodire un fuoco e invece sta solo adorando delle ceneri. Servirebbe una controrivoluzione estetica che allo stato attuale non è neppure concepibile, in particolare nel momento in cui la rivoluzione continua a divorare se stessa anche a livello musicale.
[*]
Vanno per un boschetto spoglio due creature,
la luna le segue: esse vi affondano lo sguardo.
Va la luna sopra le alte querce,
non una nube offusca la luce celeste
fin dove nere le dentate cime appaiono.
Parla una voce femminile:
Io porto un figlio che non ti appartiene,
accanto a te peccatrice cammino.
Contro me stessa ho gravemente peccato.
Non più credevo alla felicità:
pure, con greve anelito bramavo
uno scopo, una meta nella vita; ed ecco
sfrontata mi son fatta, e ho lasciato
che un estraneo il mio trepido sesso
in un amplesso avvolgesse,
e me ne sono creduta benedetta.
Ora la vita ne ha fatto vendetta:
e te ho incontrato, ho incontrato te.
Ella cammina a passi vacillanti.
In alto guarda; la luna la segue.
Lo sguardo buio annega nella luce.
Parla una voce maschile:
il figlio che hai concepito
non sia di peso all’anima tua:
guarda com’è chiaro e lucente l’universo!
Ovunque intorno tutto è splendore,
tu meco avanzi sopra un mare freddo
ma un singolare calore sfavilla
da te entro me, da me entro te.
Il bimbo estraneo ne sarà trasfigurato
e tu a me da me lo partorirai;
sei tu che hai dato a me questo fulgore,
e me stesso in un bimbo hai trasformato.
Egli l’avvince intorno ai fianchi forti.
I respiri si congiungono nell’aere lucente.
Nell’alta notte chiara due creature vanno.
Battista arriva troppo tardi per sfottere (male) certi luoghi comuni. Ci aveva già pensato il romano nazionalpopolare Alberto Sordi nel 1978 col film Le vacanze intelligenti. Si vedano gli episodi del concerto di musica contemporanea e quello alla Biennale.
https://m.youtube.com/watch?v=edJ0aFQsjvo
https://m.youtube.com/watch?v=OfsJAgaY62E
Sulla Sinfonia della Alpi di Strauss vedo riportate delle cantonate.
Il vero ispiratore delle dissacrazioni della Scuola di Darmstadt fu, già morto, Anton Webern (allievo di Schoenberg rimasto in Europa fino alla morte precoce). Schoenberg col nazismo era fuggito in America e nell’Europa del dopoguerra aveva smesso di ispirare le avanguardie, che ormai lo consideravano un passatista. Il famoso saggio di Adorno ispirato a Schoenberg e Stravinsky (anche lui stabilitosi negli USA) poteva eccitare gli ignoranti e provinciali americani, ma non molto gli europei. Si veda il celebre articolo “Schoenberg è morto” per capire quanto fosse considerato un ispiratore.
Con Wagner non si ha un abbandono della tonalità, si ha un allargamento verso lo sfruttamento espressivo del cromatismo precedentemente disdegnato. Senza Wagner non esisterebbe Richard Strauss. Sul successo popolare di Jim Morrison e tutti gli altri, sarebbe stato più intelligente riflettere sui meccanismi e sulla sociologia della musica da consumo (e sui consumi in generale) che non sull’abbandono di tecniche e forme compositive del passato da parte di Schoenberg e compagnia.
Hai ragione, basta con le puttanate. Le tue, ovviamente.
Giusto per chiarire:
1) Maurizio Battista non sta criticando l’avanguardia o la “musica contemporanea”, ma Mozart. Già questo mi fa capire che ti sfugge completamente il punto dell’articolo.
2) Le “cantonate” sull’Alpensynphonie sono state espresse da un musicologo che si è laureato a Tubinga, capisci che in questo caso vale obiettivamente il principio di autorità.
3) Non comprendo in che modo la lezioncina su Webern e il resto contraddica quanto ho scritto.
4) Su Jim Morrison riporto riflessioni di un altro autore, in ogni caso allargare il discorso alla “sociologia della musica da consumo” non avrebbe avuto senso, ma siccome, come dicevo, hai letto senza capire, è difficile valutare quanto certe obiezioni siano correlate a quanto ho scritto.
Non attinente con la vostra discussione e scambio di opinioni.
Ma vorrei far riflettere su caso di accuse all’autore progressista-femminista-pro diritti delle donne Neil-Gaiman.
Molte case editrici e case di produzione cinematografica cominciano a prendere le distanze da lui.
https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/jan/17/neil-gaiman-allegations-sexual-assault