Storie della buonanotte per bambine ribelli è un libro che negli ultimi anni ho visto regalare alle femminucce innumerevoli volte in occasione di battesimi, comunioni e cresime: è già di per sé un’eventualità buffissima che il nerbo di questa scaltra operazione di marketing sia costituito dalla celebrazione di pratiche che per il femminismo radicale sarebbero senza dubbio condannabile in quanto espressione di patriarcato, natalismo, clerico-fascismo eccetera eccetera.
Questo però è da sempre il “segreto” del femminismo, nonché di ogni “avanguardia rivoluzionaria”: pretendere di voler cambiare le strutture di potere percepite come intrinsecamente ingiuste esclusivamente allo scopo di occuparle e gestirle in base ai propri obiettivi e interessi. In tal caso, il tanto vituperato “consumismo” è servito a sostenere un successo editoriale senza precedenti per un libro per bambini.
Per bambine, anzi. O, ancora meglio, bambin*, perché nonostante il micidiale clima “politicamente corretto” attorno alla questione de bimbi transgender, dubito che qualche genitore non abbia preferito saltare la paginetta dedicata a Coy Matthis, il maschietto di sei anni che ha portato in tribunale la sua scuola elementare del Colorado per non avergli consentito l’uso dei bagni per le femmine. Una scelta obbiettivamente di cattivo gusto, che però evidentemente le Autrici non hanno potuto evitare seppure l’argomento sia più che controverso (almeno finché sarà consentito dire che il cambio di sesso a tre anni non è poi un’idea così grandiosa).
Sempre in tema di scelte, ha scontentato qualche commentatrice la pensata di inserire nella galleria di “bambine ribelli” pure Margaret Thatcher (!), la cui biografia (scarna e stilizzata come tutte le altre, quasi sicuramente un copia-incolla+taglia-cuci da Wikipedia) in toni entusiastici è a dir poco imbarazzante (“il suo sogno divenne realtà”, lol). Anche perché, oltre al paradosso del potere evidenziato poco più sopra, il femminismo ne annovera un altro: c’è sempre una donna che è più donna di un’altra.
In tal caso, la questione politica non si riduce al fatto di considerare “donna” una donna di destra: la contraddizione, meno apparente, è comunque palese anche nella scelta di tenere unite nel paradigma “bambine ribelli” scienziate e modelle, imperatrici e schiave, guerriere e nobel per la pace, insomma, padron* e serv*. Da una parte dunque si esalta (giusto per fare un esempio) l’illuminata monarchia britannica che ha consentito l’avvento al trono di Elisabetta I, e dall’altro si celebrano le gesta di personagge come Lakshmi Bai e Yaa Asantewaa, che quella stessa monarchia avrebbero voluto abbattere (quantunque all’epoca fosse incarnata dalla Regina Vittoria… alla faccia della solidarietà femminile!).
Si dovrebbe quindi capire perché l’esser donna non è in ogni caso la condicio sine qua dell'”esser donna” per il femminismo, anche nel senso più diffuso del termine. Tanto che potremmo sintetizzare il punto della polemica sulla Thatcher affermando che essa è fondamentalmente un “maschio onorario”, ideologicamente assimibile quasi un transgender (ma molto meno “donna” del seienne Coy Matthis).
Lasciando però perdere la “politica” pure in senso spicciolo, veniamo a una questione ulteriore, che forse potremmo definire “metapolitica” (il politico alla fine c’entra sempre), ovvero la concezione della “ribellione” come indice di successo e/o autorealizzazione. Bello scontro fra Schmitt e Jünger, e il tutto in un libro per bambin*! Scherzi a parte, quest’ultima controversia mi è sorta in mente imbattendomi nella “biografia” (le solite cinque righe scarse) della “ribelle del surf”, tale Maya Gabeira. Come le altre storie, anche la sua è stata impostata sul dissidio tra universo e individuo, anzi individua: il mondo intero le dice che “no, non si può fare”, ma lei lo fa e vince (“Nel dubbio, ricordate: avete ragione voi!”). Il caso m0i ha fatto ricordare di quando, da adolescente, ero al mare in uno sputo d’acqua e un ventenne voleva a tutti i costi “surfare” su delle onde inesistenti: dopo averlo visto sfiorare un paio di volte i miei cuginetti, mi sono fatto sotto e l’ho affrontato a muso duro “Cazzone non lo vedi che ci sono i bambini”, e lui schernendosi “Li ho visti, li ho visti!”. Per fortuna che se n’è andato sennò finiva come Mario Brega (una volta ero molto più irascibile, oggi sono un mediatore conciliante del cazzo).
Mi domando: e se quel tizio fosse diventato un surfista famoso, avrebbe forse trovato occasione di descrivermi in qualche intervista come il “rompicoglioni che voleva tarpargli le ali”? Oppure, se fosse stato addirittura una femmina, delle esperte di marketing l’avrebbero trasformata in “bambina ribelle” contro l’arcigno patriarca che voleva difendere la nuca o lo sterno dei suoi cuginetti? Nulla di tutto ciò però è successo, forse perché in fondo il principio che la “ribellione” sia l’unico criterio con cui farsi strada nella vita è sbagliato, anche in un cosmo in cui tutte le donne vengono automaticamente oppresse da tutti i maschi.
Insomma, oltre a essere confuso, schematico, incoerente e pure noioso (non ho trovato alcuna storia della buonanotte in grado di “coinvolgere” una bambina, da Marie Curie alla ginnasta Simon Biles) il volume in ultima analisi è pure “diseducativo” nella misura in cui insiste a presentare qualsiasi percorso di vita come ispirato alla ribellione, persino quelli in cui a dettar legge sono perlopiù il caso, alcune predisposizioni assolutamente personali o dei criteri di successione dinastica.