Una decina di anni fa venne pubblicato, su un gruppo Facebook privato gestito tra amici, il pdf di un articolo tanto straordinario quanto perturbante, a firma Davide Nota (che, al di là delle omonimie, dovrebbe essere scrittore e poeta): L’Enigma Paolazzi. Novissimi, Gruppo 63 e Strategia della tensione culturale. Il pezzo non era apparso su alcun sito o blog, ma era semplicemente circolato da una email all’altra come se risultasse quasi impossibile divulgarlo in modo più aperto per le interpretazioni incendiare che esso proponeva riguardo al panorama culturale italiano del dopoguerra. Personalmente ricordo che lo stampai subito per “divorarlo” in una decina di minuti, salvo poi metterlo da parte e non trovarlo più per anni. Nel frattempo, anche il mio pc dell’epoca è, come sempre, saltato in aria (sono allergico a qualsiasi backup pur non essendo boomer) e la copia cartacea si è persa tra faldoni e cartelle piene di polvere. Complice un trasloco, dopo più di due lustri ho infine ritrovato quei fogli e naturalmente lo scritto mi è sembrato, oggi come allora, più che meritevole di una nota. Il problema è che non vorrei limitarmi a pubblicarlo papale papale, sia perché molte affermazioni mi paiono purtroppo suscettibili di risvolti giudiziari (gli arconti del “culturame” sono facili all’offesa) sia perché non mi va di approfittare delle ricerche altrui, in specie quando l’Autore di esse risulta difficilmente reperibile. Dunque mi limiterò ad accennare per sommi capi al contenuto di tale magistrale articolo e invitare il buon Nota a renderlo di nuovo disponibile da qualche parte sul web. Ovviamente pubblicare questo materiale non significa condividerlo al 100%, ma solo rendere disponibili spunti che meritano ancora di esssere approfonditi.
[En passant, un’altra precisazione: mi sono permesso di rendere alcuni riferimenti bibliografici più precisi grazie alla possibilità che allo stato attuale i motori di ricerca offrono di puntualizzare e scandagliare le fonti rispetto all’epoca, ormai un’era geologica nella prospettiva internettiana, in cui venne stilato il testo originale].
«Gli autori del Maggio francese non si resero conto che si stava chiudendo l’epoca caratterizzata dalla ricerca di un disegno razionale della storia e che si apriva una nuova età, nella quale la comunicazione prende il posto dell’azione individuale collettiva. […] L’ironia della storia li aveva fatti protagonisti di eventi il cui significato sfuggiva loro completamente. Come insegna Marx, l’occultamento e il travestimento costituiscono una caratteristica costante per coloro che partecipano agli eventi storici, i quali risultano così sempre vittime di accecamenti e di fraintendimenti fatali»
(Mario Perniola, Miracoli e Traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, pp. 48-49)
Davide Nota apre il suo articolo di “giornalismo storiografico” con un esergo di Mario Perniola (1941–2018), filosofo che partecipò sostanzialmente a tutte le correnti culturali del tardo Novecento mantenendo però sempre, fino alla fine dei suoi giorni, uno stile intelligentemente critico e distaccato.
L’Autore poi aggiunge immediatamente una citazione di Guy Debord per giustificare la controversa ma necessaria “riduzione di mondi complessi ed eterogenei a funzioni univoche”, in particolare a una “funzione pilota”, cioè alla “micro-storia” che ha determinato un mutamento effettivo degli sviluppi storici. Il passo del filosofo parigino è tratto dalla quarta prefazione alla versione italiana de La Società dello Spettacolo (Vallecchi, 1979), il cui estratto è utile rileggere anche alla luce del revival neo-romantico del “banditismo rosso” e dello “spirito del 77” che anima ormai da decenni una vasta area del culturame sinistroide nazionale:
«La versione delle autorità italiane, aggravata piuttosto che migliorata da cento ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo istante. La sua intenzione non era d’essere creduta, ma d’essere la sola in vetrina; e dopo d’essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Fu un’opera mitologica con grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi trasformisti diventano volpi per prendere in trappola la loro preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la sorvegliano, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare. Ci viene detto che essi hanno la fortuna di avere a che fare con la più incapace delle polizie, e che inoltre si sono potuti infiltrare senza problemi nelle sue più alte sfere. Questa spiegazione è poco dialettica. Un’organizzazione sediziosa che mettesse alcuni dei suoi membri in contatto con i servizi di sicurezza dello Stato, a meno di non averveli introdotti vari anni prima per svolgervi lealmente il loro compito in attesa che giunga una grande occasione di servirsene, dovrebbe aspettarsi che gli stessi propri manipolatori vengano a loro volta manipolati: e sarebbe dunque privata dell’olimpica assicurazione d’impunità che caratterizza il capo di stato maggiore della “brigata rossa”.
Ma lo Stato italiano dice di meglio, con l’approvazione unanime di coloro che lo sostengono. Esso ha pensato, come qualsiasi altro, di infiltrare degli agenti dei propri servizi speciali nelle reti terroristiche clandestine […]. Una sola sventurata coincidenza è venuta ad ostacolare la buona volontà dello Stato: i suoi servizi speciali erano appena stati dissolti. Un servizio segreto, fino a quel momento, non era mai stato dissolto come, ad esempio, il carico di una petroliera gigante in acque costiere, o una frazione della produzione industriale moderna a Seveso. Conservando i propri archivi, gli informatori o l’organico degli ufficiali, cambiava semplicemente di nome. È così che in Italia il Sim, Servizio di Informazioni Militari del regime fascista, così celebre suoi omicidi all’estero, era divenuto il Sid, Servizio Informazioni della Difesa, sotto il regime democratico-cristiano. D’altra parte, quando si è programmata su un calcolatore una specie di dottrina-robot della “brigata rossa”, lugubre caricatura di ciò che si riterrebbe dover pensare e fare se si preconizzasse la scomparsa di questo Stato, un lapsus del calcolatore – a tal punto è vero che queste macchine dipendono dall’inconscio di coloro che le informano – ha fatto sì che venisse attribuita questa stessa sigla di Sim (che vuol dire questa volta “Stato Imperialista delle Multinazionali”), all’unico pseudoconcetto ripetuto automaticamente dalla “brigata rossa”.
Questo Sid, bagnato di sangue italiano, ha dovuto essere recentemente dissolto perché, come lo Stato confessa post festum, è esso che, dal 1969, ha eseguito direttamente – il più delle volte, ma non sempre, alla dinamite – questa lunga serie di massacri che sono stati attribuiti, secondo le stagioni, agli anarchici, ai neofascisti o ai situazionisti. Ora che la “brigata rossa” fa esattamente lo stesso lavoro, e per una volta almeno con una capacità operativa molto superiore, esso non può evidentemente combatterla dato che è dissolto. In un servizio segreto degno di questo nome, la dissoluzione stessa è segreta. Non si può dunque distinguere quale proporzione degli effettivi sia stata ammessa ad un’onorevole pensione; quale sia stata assegnata alla “brigata rossa”, o prestata magari allo scià d’Iran per incendiare un cinema ad Abadan; quale altra sia stata discretamente sterminata da uno Stato probabilmente indignato di apprendere che qualche volta si erano oltrepassate le sue istruzioni, e del quale si sa che non esiterà mai ad ammazzare i figli di Bruto pur di far rispettare le proprie leggi, dal momento in cui l’intransigente rifiuto ad accettare la benché minima concessione per salvare Moro ha finalmente dimostrato che esso possedeva tutte le ferme virtù della Roma repubblicana.
[…] Moro credeva nel “compromesso storico”, vale a dire nella capacità degli stalinisti di spezzare finalmente il movimento degli operai rivoluzionari. Un’altra tendenza, quella che è per il momento in condizione di controllare i comandanti della “brigata rossa”, non vi credeva; o almeno riteneva che gli stalinisti, per i deboli servizi che possono rendere e che renderanno in ogni modo, non debbano essere trattati con troppo riguardo, e che bisogna bastonarli più duramente perché non diventino troppo insolenti.
Si è visto che quest’analisi non era priva di valore poiché, rapito Moro a guisa di affronto inaugurale al “compromesso storico” infine autenticato da un atto parlamentare, il partito stalinista ha continuato a fingere di credere all’indipendenza della “brigata rossa”. Si è tenuto il prigioniero in vita finché si è creduto di poter prolungare l’umiliazione e l’imbarazzo degli amici, che dovevano subire il ricatto facendo nobilmente finta di non comprendere che cosa si aspettassero da loro certi sconosciuti barbari. Dopodiché la si è ugualmente fatta finita non appena gli stalinisti hanno mostrato i denti, facendo pubblicamente allusione a delle oscure manovre: e Moro è morto deluso».
La “funzione” che riguarda il discorso di D. Nota circoscrive lo zoccolo duro dei poeti “Novissimi”, identificati genericamente come “Neo-avanguardia” in virtù della loro polemica contro la precedente generazione letteraria (uscita dalla Resistenza e accusata di essere crocio-gramsciana, storicista e dunque in ritardo rispetto allo strutturalismo e al “francofortismo”) sviluppata in particolare da Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e Nanni Balestrini.
Dietro alle schermaglie “teoriche” o retoriche si nascondeva in realtà quello che lo storico François Hartog definisce come regime storico del “presentismo”, ovvero l’ideologia della simultaneità della comunicazione contro il discorso di durata, espressa dall’avversione nei riguardi dell’approccio umanistico e gramsciano della prima generazione di intellettuali di sinistra del dopoguerra.
Come sostiene il critico letterario Romano Luperini, parlando dei “crociogramsciani” con particolare riferimento al poeta Roberto Roversi (1923–2012), notissimo paroliere che fu però anche partigiano, nonché direttore di “Lotta Continua”,
«All’inizio del periodo che prendiamo in considerazione il conflitto […] [divideva] quanti ancora continuavano a muoversi all’interno del vecchio ruolo ideologico dell’intellettuale umanistico da quanti, invece, avvertivano la necessità di rompere con esso e di ridefinire la propria collocazione nel campo delle attività umane. Il terreno di scontro […] comportava una battaglia culturale che vedeva attestati da un lato gli storicisti, ancora crociogramsciani, di “Officina” e dall’altro i seguaci della fenomenologia riuniti intorno a “Il Verri”. E va da sé che i secondi prendevano di mira il marxismo e s’inserivano, per affossarlo, in una crisi politica e culturale del movimento operaio; ma anche che i primi non avevano affatto le carte in regola per reggere l’urto, cosicché, restando al di qua dei termini stessi della questione, erano destinati a finir perdenti»
(cfr. R. Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Loescher, 1981, t. II, p. 727).
Secondo Nota, “gli avanguardisti, politici e poeti, sono stati gli utili idioti della restaurazione nazionale” e “il berlusconismo, come processo di smantellamento del sistema culturale in Italia e di demolizione della connessione tra intellettuali e cittadinanza” sarebbe partito dal germe dei Novissimi, gli enfant terribles della Neo-avanguardia italiana, colpevoli di aver permesso, senza neppure rendersene conto, “la vittoria della barbarie berlusconiana da una parte, e la restaurazione parnassiana dall’altra”.
Per comprendere meglio il punto (profondamente problematico, in particolare dopo che il vecchio Silvio se ne è andato accompagnato da imprevedibili ludi funebri degni di un monarca babilonese), è necessario conoscere alcuni elementi inediti di una vicenda che si contestualizza nel cono d’ombra delle “convergenze parallele” fra apparati dello Stato ed estremismi politico-culturali, quella “rivolta senza rivoluzione” di cui scriveva Camus in polemica con Sartre.
Davide Nota parte dalla complessa, stratificata e rivelatrice biografia di Antonio Porta (1935-1989), poeta di punta dei “Novissimi” (lanciato da “Il Verri” di Luciano Anceschi), il quale all’anagrafe faceva Leo Paolazzi, figlio di Pietro Paolazzi, editore milanese engagé dall’Eni di Eugenio Cefis e sodale di Edilio Rusconi (1916–1996), con il quale fino al 1968 gestì appunto la casa editrice Rusconi e Paolazzi, poi diventata la più nota Rusconi.
Come è noto, Rusconi, patriarca di uno dei più importanti imperi editoriali italiani, durante la Resistenza fece parte del gruppo di partigiani badogliani di Edgardo Sogno, il “Franco Franchi” che a metà degli anni ’70 del secolo scorso finì per un mese a Regina Coeli per complicità nel cosiddetto Golpe bianco per trasformare l’Italia in una Repubblica Presidenziale («Un’operazione largamente rappresentativa sul piano politico e della massima efficienza sul piano militare», come scrisse lo stesso Sogno). Inoltre, la Rusconi si contraddistinse nel panorama editoriale italiano del dopoguerra per un marcato orientamento di “destra”, senza disdegnare autori “maledetti” come Jünger o Guénon, e concedendosi numerosi incursioni nel campo dell’esoterismo.
Nel 1976 Edilio Rusconi si inserisce nel panorama emergente delle televisioni private fondando un’emittente a Roma (Quinta Rete) e una a Milano (Antenna Nord, 2 maggio 1977), le quali faranno da trampolino di lancio per la creazione, nel 1982, del network Italia1, ceduto nello stesso anno alla Fininvest di Silvio Berlusconi per 32 miliardi di lire.
Dal canto suo, il nome di Petro Paolazzi ricorre più volte nelle pagine di Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz (pseudonimo del giornalista Corrado Ragozzino, ristampato di recente dalla Effigie), una delle fonti sull’omicidio di Enrico Mattei e sulle responsabilità di Eugenio Cefis su cui si stava formando Pier Paolo Pasolini prima di essere assassinato. In base a due appunti del Sismi e del Sisde scoperti dal pm Vincenzo Calia nella sua inchiesta sulla morte di Mattei, Cefis sarebbe stato addirittura il fondatore della Loggia P2 e l’avrebbe diretta sino a quando fu presidente della Montedison, per poi consegnarla a Umberto Ortolani e Licio Gelli una volta giunto a capo dell’Eni.
Paolazzi e Rusconi si occupano tra gli anni ’50 e ’60 di lanciare i primi magazine di massa come “Oggi”, “Gente”, “Gioia”, “Eva”, “Motori”, “Tuttomoto”, “Viaggi”, “Musica Jazz” e altri periodici di tendenza all’interno delle cui redazioni trovano posto personaggio come Giorgio Pisanò, volontario della Xª MAS ed esponente di spicco del neofascismo del dopoguerra.
Nel 1961 esca per la Paolazzi&Rusconi l’antologia I Novissimi, a cura di Alfredo Giuliano e con testi di quest’ultimo, di Nanni Balestrini, Elio Pagliarini, Edoardo Sanguineti e, per l’appunto, Antonio Porta. Il libro venne inserito in una delle collane de “Il Verri” (pubblicazione anch’essa patrocinata dallo stesso editore): Luciano Anceschi, fondatore e direttore della rivista, sarà uno dei primi critici a schierarsi in favore della Neo-Avanguardia, interpretando quest’ultima, secondo Davide Nota, come “una forma aggiornata di orfismo che uscendo da un immaginario cattolico e contadino d’epoca fascista trova un nuovo sistema di segni, ateo e industriale, altrettanto idoneo a modellarsi sulle esigenze di dissociazione psicotica del linguaggio dal discorso“.
Per approfondire il tema delle origini esoteriche ed ermetiche del linguaggio della comunicazione di massa diventa essenziale la lettura del pamphlet Contro la comunicazione sempre di Mario Perniola (Einaudi, 2004), nel quale il filosofo sostiene che
«se cerchiamo un precedente storico della comunicazione non è allo spettacolo che bisogna rivolgersi, ma a ciò che sembra il suo esatto contrario, l’esoterismo, specie nelle sue manifestazioni più degradate. […] Tuttavia il segreto non sembra costituire l’aspetto peculiare della comunicazione, perché questa abolisce il messaggio non attraverso il suo occultamento, ma attraverso un’esposizione esorbitante e sfrenata di tutte le sue varianti. Nel segreto c’è un contenuto da preservare; la comunicazione invece mira al dissolvimento di tutti i contenuti».
La poesia dei “Novissimi” e della Neo-Avanguardia, fondata sulla mimesi del linguaggio dei mass media e su un “disordinismo” finalizzato al dissolvimento dei contenuti, sarà probabilmente parsa ad Anceschi come la naturale traduzione, nell’Italia degli anni ’60, della sua passione giovanile per l’ermetismo. Anche per questo non dovrebbe stupire come gli eredi di Anceschi siano passati con disinvoltura dall’auto-posizione ideologica di Sanguineti al neo-orfismo della Parola innamorata (come da titolo di una famosa antologia di fine anni ’70), o all’intreccio postmoderno delle due istanze, come un serpente che dalla mimesi nevrotica del tardo capitalismo passa alla regressione ermetica e viceversa, senza uscirà mai fuori dal tracciato del gusto, e cioè della propria ideologia estetica di classe, che odia il “discorso”.
Nell’antologia dei Novissimi, il nome di Antonio Porta va a sostituire quello di Giuseppe Guglielmi (1923–1995), che inizialmente Anceschi avrebbe voluto come quinto “Novissimo”, ma il quale aveva manifestato diffidenza nei confronti dell’operazione, che reputava dai presupposti superficiali e goliardici. La scelta di Porta/Paolazzi, secondo Nota, sarebbe frutto di una “reciproca strumentalizzazione” tra l’avanguardia culturale e alcuni ambienti del Palazzo, con i quali condivideva l’ostilità nei confronti degli intellettuali marxisti tradizionali legati al PCI.
La famiglia Paolazzi, che ha di certo avuto un ruolo di spicco nella promozione de “I Novissimi”, può probabilmente aver anche partecipato all’organizzazione del celebre convegno dell’ottobre del 1963 presso l’Hotel Zagarella di Palermo, atto di fondazione del famigerato “Gruppo 63”.
Questo movimento neoavanguardistico sembra sin dal principi caratterizzato da due anime: la prima, guidata da Edoardo Sanguineti (cioè ai Novissimi) e alla Feltrinelli; la seconda, gestita da Umberto Eco e riconducibile alla Bompiani. Pur condividendo entrambe l’avversione per gli intellettuali nati negli anni ’10-’20, le due cordate paiono incompatibili: per la fazione echiana lo scontro dovrebbe svolgersi su un terreno prettamente accademico, mentre per Sanguineti (e dunque Balestrini) è inevitabile assumere una posizione politica, appaiandosi in particolare alle posizioni autonomiste pre-Sessantottine e alle tesi di Toni Negri, che accelerano la deriva vitalistica e violenta del movimento in sfavore del PCI e della CGIL. Non è un caso che il gruppo si scioglierà proprio nel fatidico Sessantotto (anche se la data “ufficiale” è il 1969).
In tale frangente, Antonio Porta si staccherà dai Novissimi e seguirà Eco, venendo non casualmente assunto dalla Bompiani nel 1968, in qualità di direttore amministrativo e assistente di Valentino Bompiani. Da lì in poi, ricorda Nota, “comunicherà la volontà di essere chiamato con il nome d’arte anche nella vita privata: un atto di radicale cesura da un passato con cui non vuole avere più niente a che fare”.
Da una prospettiva più ampia sembra configurarsi un grande gruppo politico-editoriale che unisce Milano, Roma e Palermo, e che pare che abbia come funzione quella di organizzare una nuova “egemonia culturale” fondata sull’opinione pubblica e sulla comunicazione di massa. La potenza di tale organizzazione pare manifestarsi nella gestione della società “Corriere dello Sport”, le cui azioni vengono acquisite dalla Rusconi e Paolazzi s.p.a. e in cui Antonio Porta svolge un ruolo centrale. Leo Paolazzi nei primi anni ’60 è infatti andato a vivere a Roma, dove lavora svolgendo alcuni compiti per conto del padre. Così ricostruisce quel periodo Angelo Guglielmi, in un suo contributo nel numero monografico de “Il Verri” dedicato a Porta (Un ricordo, “Antonio Porta il progetto infinito”, n. 41, ottobre 2009, p. 139):
«Ad un certo punto si trasferì a Roma dove io già abitavo […], con l’incarico di procedere alla liquidazione del “Corriere dello Sport”, il quotidiano sportivo di Roma della Rusconi-Paolazzi; il giornale non andava bene e lui aveva l’incarico di portarlo rapidamente alla conclusione. Mi ricordo che la sera lo incontravo al ristorante Cesaretto in via della Croce, arrivava vispo e pimpante, io pensavo perché aveva sciolto uno dei noti nodi drammatici che sempre precedono la chiusura di un giornale, invece no, era pimpante perché felice per la performance con cui aveva licenziato l’edizione del giorno dopo, come se non sapesse che sarebbe stata una delle ultime edizioni. Sembrava che lavorasse non alla chiusura del giornale ma al suo lancio».
Di lì a poco il “Corriere dello Sport”, condannato alla chiusura per bancarotta, vivrà inaspettatamente una seconda vita…
Anche al congresso fondativo del Gruppo 63 a Palermo sembra si sia messa all’opera una di queste “convergenze parallele” (che in seguito animeranno sostanzialmente l’intera stagione post-sessantottina), espressa nella spietata campagna contro l’umanesimo crocio-gramsciano messa in atto da Sanguineti e i suoi, una polemica talmente feroce che nel 1964 Pasolini, in appendice ai frammenti dell’opera incompiuta La divina mimesis, parlando nelle vesti di ipotetico editore, scriverà di se stesso in terza persona che “egli è morto, ucciso a colpi di bastone, a Palermo, l’anno scorso” (per una macabra coincidenza, lo scrittore verrà assassinato meno di un mese dopo aver consegnato il manoscritto ad Einaudi nel 1975).
Davide Nota aggiunge un “dettaglio” che a suo dire rappresenterebbe “un enigma di difficile interpretazione”: l’Hotel Zagarella, una delle più importanti strutture alberghiere palermitane, fu costruito dai famigerati cugini Salvo (Ignazio e Antonino), uomini d’onore della cosca di Salemi che utilizzarono il loro immenso Hotel per ospitare i boss mafiosi e organizzare “incontri riservati” tra Palermo e Roma.
Come ricorda ancora Roberto Roversi in un’intervista del 2003 (in P. Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, Edizioni del Sud, 2003):
«Il Gruppo 63 tendeva a rinnovare tutto, agganciandosi alle grandi avanguardie del Novecento soprattutto straniere (era Arbasino, se ricordo bene, che diceva che i letterati italiani, sino alla conclusione della guerra, non erano mai andati oltre Chiasso, per stabilire un provincialismo culturale che per lui era da osteggiare, da canzonare: senza capire, non conoscendo le condizioni della vita culturale sotto il fascismo). Nella neoavanguardia non c’è alcun riferimento alla guerra. Ho provato, per divertirmi, a rileggere i loro romanzi, le loro poesie, i loro manifesti “gridati” come ai tempi del futurismo: niente, nemmeno una parola sulla guerra. Quelli di “Officina”, come me, erano usciti tutti da lì, l’avevano fatta, provenivano dal fascismo, avevano subito dei lutti. All’interno della [nostra] rivista le rovine della guerra erano evidenti, ci si muoveva tra i calcinacci. Il Gruppo 63 si muoveva invece in un albergo con le camere ben riscaldate, i lampadari accesi, la televisione. Non è un fatto solo generazionale. […] Direi che molte polemiche e qualche risultato letterario del “Gruppo ’63” sono stati positivi. Ciò che non accettavo era il loro “smanazzare”, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttar tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà».
Davide Nota rintraccia nella biografia e nella personalità di Porta/Paolazzi una profonda “scissione” che inevitabilmente si riflette nell’opera poetica. Una dissociazione dolorosa che coinvolte un’intera epoca, un’intera nazione e anche un’intera generazione, quella “generazione sfortunata” dei figli della grande borghesia italiana, tra volontà di ribellione e condanna all’obbedienza, assalto al potere e pulsione di morte, di cui parla Pasolini in noti versi di un suo componimento del 1971:
«oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
[…] Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire –
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!»
Pasolini non è mai citato a caso, in quanto il grande romanzo della “scissione” dell’epoca è identificabile in Petrolio, la cui prima stesura risale al 1972 (e come è risaputo venne pubblicato solo postumo nel 1992). La scissione del protagonista Carlo Valletti in Carlo e Karl è la scissione dell’Eni tra Bonocore (Enrico Mattei?) e Troya (Eugenio Cefis?): questa incessante commistione tra inconscio individuale, storico e politico che, nelle intenzioni dell’Autore avrebbe dovuto fare di Petrolio (almeno secondo la tesi di Gianni D’Elia nel Il Petrolio delle Stragi, ancora Effigie, 2006 ma ormai fuori catalogo) il romanzo enciclopedico della mutazione antropologica degli italiani, incastonabile in tre date simboliche: 1962 (omicidio di Mattei e rimozione del passato economico); 1975 (omicidio di Pasolini e rimozione del passato culturale); 1978 (omicidio di Aldro Moro e rimozione del passato politico).
Pasolini conosceva personalmente Antonio Porta ed era senza dubbio al corrente della sua storia personale, politica e artistica, una biografia che non deve averlo lasciato indifferente, considerando la guerra culturale in corso in quegli anni di cui egli stesso era vittima. Per arrivare al punto, sappiamo che il protagonista di Petrolio, Carlo, non rappresenti solo un rimando generico alla “scissione” dell’intellettuale medio degli anni ’60, ma abbia una connotazione più specifica.
Walter Siti e Silvia De Laude, nelle note all’edizione Oscar Mondadori, identificano come “modello” di Carlo Valletti il politico ed economista socialista Francesco Forte (1929-2022), la cui storia parla da sola: nel 1962-64 è consulente del ministero del Bilancio, nel 1965 è Visiting Professor dell’Università di York (Inghilterra) e Rockefeller Research Professor a Washington presso la Brookings Institution, dal 1966 al 1976 vicepresidente dell’Eni, poi responsabile economico del Partito Socialista fino al 1982, anno nel quale divenne Ministro delle finanze nel Governo Fanfani V; nel biennio 1984-1985 è Presidente della International Atlantic Economic Society (e, tra le altre cose, secondo alcune fonti Forte sarebbe stato l’originale ideatore del marchio “Nutella” per la Ferrero).
Per D. Nota, oltre a Forte, è possibile rintracciare nel personaggio di Carlo/Karl una sovrapposizione di psicologie e biografie: per esempio, c’è molto dello stesso Pasolini (nel Carlo “notturno”, che degrada nella pornografia seriale) -oltre che ovviamente tanta libertà creativa-; tuttavia la figura dello “scisso”, il trentenne borghese oppresso da un peso, il cattolico progressista che di giorni partecipa al potere ma frequenta anche intellettuali di sinistra (la rivista “Il Mulino”) e ha letto i testi del marxismo dissidente, sembra profondamente influenzata anche da alcuni aspetti della vicenda biografica e familiare di Paolazzi/Porta, che a Pasolini non può essere sfuggita durante la lettura del libro di Steimetz su Cefis, in cui si palesano i legami della famiglia Paolazzi con il petrolio che Pasolini sta studiando e dove si comunica che la tipografia della Paolazzi&Rusconi è di proprietà dell’Eni ed è stata data in gestione a Paolazzi senior da Cefis.
Non è da escludere che proprio questa “scoperta” della doppia identità di Porta/Paolazzi possa avere ispirato a Pasolini la costruzione di un personaggio emblema dell’ambiguità politica e dell’antropologia italiana della Scissione (il segno del “Misto”, di cui è portatore Troya). Alcuni passaggi di Petrolio in cui un lessico prevalentemente tecnico-politico sfuma in riferimenti di carattere estetico-letterario attigui ai topoi dell’invettiva pasoliniana contro il giovanilismo della Neo-avanguardia, sembrerebbero confermare tale intuizione.
«Il nostro eroe […] è dotato della solita “mezza cultura”. Ma è “iniziato”. E questo trasforma la “mezza cultura” in una qualificazione sociale che gli consente insieme di essere integrato e di essere all’avanguardia. Di scrivere sul “Guardian” e di ridere con aria nichilistica e il massimo disprezzo (come certi giovani ribelli che si incontrano nei libri russi da Dostoevskij a Bulgakov) dell’establishment (cosa quanto mai gratificante). Bene, tutto ciò lo dico per il piacere del raccontare, che, come si sa, pecca sempre per eccesso (chi decide di raccontare qualcosa ha subito la possibilità di raccontare l’intero universo)» (Appunto 41).
Il nome Carlo, nella logica di un mascheramento narrativo, potrebbe essere riferito non solo al nome del padre di Pasolini (Appunto 4: «Carlo è il nome di mio padre. Lo scelgo per una ragione illogica: infatti tra mio padre e questo ingegnere sdoppiato […] non c’è nessuna possibilità di raffronto») ma anche a quello di Carlo Porta, poeta milanese settecentesco dal quale Antonio Porta ha preso ispirazione per il proprio pseudonimo.
Pur essendo delle congetture, il collegamento è verosimile nel momento in cui la vicenda si svolge interamente in ambienti interni (salotti, uffici e case) dove autorità politiche e industriali, cultura di sinistra d’avanguardia e nuovo potere mediatico si incontrano e convivono, e all’interno dei quali si muove il doppio Carlo, in un panorama dominato da Troya/Cefis che posiziona le proprie pedine per preparare l’assalto al mondo della comunicazione
Nell’Appunto 2, ad esempio, si comunica che nel 1960 Carlo, sui trent’anni, si stabilisce a Roma. Nell’appunto 4 si dirà che è nato nel 1932. Antonio Porta è nato nel 1935 e si stabilisce a Roma nel primi anni ’60, quando ha per l’appunto sui trent’anni. Poi, ancora nell’Appunto 4, Pasolini scrive:
«Come mio padre mai avrebbe accettato di spaccarsi in due, capace anche di ammazzare come ammazzavano i fascisti per difendere la sua unità – cosi egli, al contrario, non avrebbe mai accettato di fingere di essere uno se in realtà era spaccato in due. Avrebbe potuto anche lasciarsi ammazzare, pur di essere coerente con questa sua realtà. Egli è un cattolico, che, per il carattere che ho descritto qui nel suo schema, non poteva che essere spinto a diventare un cattolico di sinistra. […] Si potrebbe dedurre, quindi, che la sua onestà morale, la sua innocente volontà di non opporsi alla propria dissociazione, reale, necessaria, storica, potrebbe essere anche una delle tante forme positive che può prendere quel contenuto negativo che è l’ipocrisia: sì la vecchia ipocrisia cattolica, controriformistica. Voglio dire che la dissociazione poteva derivare anche, classicamente (e classisticamente) da un meccanismo di conservazione, com’è ben noto: e venire poi a coincidere con quella dissociazione reale, necessaria, storica che dicevo. Alla dissociazione prima presiederebbe l’ipocrisia cattolica, ed avverrebbe fuori dal dominio della coscienza. Alla dissociazione seconda presiederebbe l’onestà del vecchio mondo (per coincidenza cattolico) e avverrebbe non solo nel dominio della coscienza, ma per la stessa volontà della coscienza. Fatto sta che di Carlo non ce n’è solo uno, ma due».
Nell’Appunto 5 troviamo poi alcune annotazioni biografiche:
«Carlo è nato a Torino il 6 marzo del 1932. Ha frequentato le scuole elementari e medie a Ravenna, ha studiato poi ingegneria all’università di Bologna dove nel 1956 si è laureato. […] Si interessò subito di ricerche petrolifere; ma questo non significa che egli optasse decisamente per il fare, oppure che l’unico suo pensiero fosse la carriera. (Tanto è vero che egli non si è sposato, e tutt’ora è scapolo.) Continuò a vivere il proprio lavoro all’Eni, anche come riflessione intellettuale. Bologna era una città comunista, negli anni Cinquanta la cultura comunista, o genericamente di sinistra, tendeva a essere egemonica; e d’altronde non aveva reali alternative. Carlo aveva anche amici che frequentavano lettere o scienze politiche; aveva vissuto la civiltà dell’impegno a cui aveva aderito come i giovani aderiscono alle cose del presente, al codice. Alcuni dei suoi amici furono tra i fondatori della rivista “Il Mulino” ed egli continuò a frequentarli, anzi la sua cultura non specializzata si formò li. Conobbe subito la nuova sociologia americana, e le nuove forme di cattolicesimo sociale, conobbe subito la nuova psicanalisi, conobbe subito i primi testi dei comunisti dissenzienti. Quando arrivarono gli Anni Sessanta, egli era pronto a viverli. Era anzi quello il suo momento».
Nell’Appunto 20 Carlo viene ricevuto dalla Signora F., nella cui casa si svolgono frequentemente happening culturali. Qui incontra un vecchio compagno di scuola di nome Guido Casalegno, proveniente da una potente famiglia legata all’Eni ma con una cultura eclettica e letteraria, dunque non solamente “tecnica” come Carlo. Casalegno aveva fatto strada nell’Eni in un’area suturale, dove agiva come tuttofare. Si noterà come questa figura, quella del Casalegno, possa in qualche modo coincidere più organicamente con il profilo biografico di Leo Paolazzi, mentre il protagonista Carlo ha un profilo, come si è detto, risultante da una sovrapposizione di più identità.
A un certo punto Pasolini delinea un ritratto dell’industria culturale a lui coeva che pare a tutti gli effetti un vero e proprio calco della storia di Paolazzi&Rusconi:
«C’era stato in quegli anni (in cui queste manovre non venivano ancora alla luce, erano considerate innocente comune amministrazione) un oscuro spostarsi di pedine in un settore importante per un organismo di potere, statale e insieme non statale, come l’Eni: il settore della stampa. Per esempio, edito dalla Nuova Editoriale Italiana Spa, usciva a Milano nuovo “Avvenire”, nato dalla fusione tra il quotidiano cattolico bolognese e l’omonimo quotidiano lombardo. L’Eni aveva una particolare predilezione per questo giornale, che non si limitava a privilegi pubblicitari. […] Si ingaggiarono addirittura dei giornalisti del “Corriere” – per esempio il viceredattore capo dei servizi sportivi – insieme ai redattori dell’Ansa e di “Panorama”; per non parlare di altri personaggi più eccentrici, come per esempio l’ex direttore di “Ciao Big”, l’ex direttore del mensile per uomini soli “Kent”, l’ex direttore di “Sì” (figliazione di Abc) e l’ex redattore capo di “Abc” stesso. Il presidente della Nuova Editoriale Italiana Spa diventa uno dei massimi dirigenti dell’Eni, Ettore Zolla: costui è, soprattutto, uomo di fiducia di Troya. […] Vicepresidente della Nuova Editoriale Italiana è, appunto, al momento in cui ci troviamo della nostra storia, Guido Casalegno».
Negli Appunti 22f-g si descrive il contesto del ricevimento in cui Carlo trova Casalegno:
«La F. infatti investiva la sua intraprendenza in imprese culturali. Non soltanto organizzava quasi settimanalmente dei Ricevimenti (come l’attuale) in cui si incontravano letterati, giornalisti, scienziati e uomini politici, ma si dava anche a una certa attività più specifica: una piccola scuola e laboratorio teatrale, un centro di ricerche “audiovisive”. Per questo la F. aveva bisogno di finanziamenti, sia pur minimi: qualche milioncino: diciamo una ventina di milioni in tutto l’anno. Chi la finanziava, se di finanziamento si può parlare? Ebbene, a quanto pare, i finanziamenti le arrivavano in via totalmente amichevole da quell’ente o società “?” di cui ho parlato poco sopra.
[…] Vorrei anche ricordare al lettore, che tra i rami o rametti immediatamente superiori a “?”, c’è una “Linea Società Pubblicità Italiana” (e si sa quanto siano stati stretti in quel periodo di scoperte i legami tra intellettuali e pubblicità: che era quasi considerata un genere letterario), ma c’era soprattutto una “xxx Produzioni cinetelevisive”, assai eloquente. Dunque, attraverso questi rami non esplicitamente petrolieri, confluiva al salotto della Sig.ra F. metà del finanziamento necessario alle sue iniziative artistiche. Ma da dove confluiva l’altra metà?».
Per comprendere da dove confluisse quest’altra metà, andrebbe aperto un capitolo a parte sulle fondazioni internazionali che hanno avuto il compito di finanziare determinate culture ed estetiche artistiche, ed anche determinate coniugazioni del marxismo nell’Europa occidentale degli anni ’60 e ’70. Finora però sono già state lanciate troppe pietre nello stagno torbido che copre i fondali degli ultimi cinquant’anni di Guerra fredda culturale in Italia ed è meglio a questo punto concludere con alcune precisazioni.
Innanzitutto, non deve essere fatta confusione tra un severo giudizio di carattere politico e la legittimità estetica. Per Nota, la mimesi proposta da Sanguineti, Giuliani e Balestrini delle forme e dei linguaggi egemoni non aggiunge molto alla dissociazione pseudo-orfica del capitalismo finanziario tra comunicazione e discorso.
Lo pseudo-ermetismo senza mistero e privo di iniziabilità del tardo capitalismo resta tale prima, durante e dopo l’intervento poetico, che si configura dunque come un intervento nullo ed insignificante. I Novissimi clonano la psicosi della comunicazione non “significando” alcuna cosa: essi “sono” la comunicazione.
Detto ciò, è fuor di dubbio che anche Laborintus (1956) di Sanguineti è uno dei libri più importanti del secondo Novecento: il poeta Novissimo, per Nota, resterà come “un pazzo alto-borghese nichilista a cavallo del nonsense, singhiozzando tic e lapsus”. Egli si ribella contro il popolare lasciando esplodere le proprie viscere gonfie di linguaggio senza lingua, non avendo altro da dire, in tale esplosione, che lo stile. La sua eredità è, come in un d’Annunzio, l’estetica mimetica di un’ideologia in atto: laddove il Vate era il fascismo, Sanguineti è il “Nuovo fascismo” della comunicazione. In ciò si riconosce una vera e propria Controriforma: una granata ben piazzata sulle ceneri di Gramsci.
In questa lotta contro il “popolare” Sanguineti è coadiuvato da tutti quei pensatori di prim’ordine che nutrono nei confronti di ciò che chiamano “populismo” una sorta di atavico rancore, oltre che un malcelato disgusto di classe. Sta di fatto che un poeta ha il pieno diritto di compiere la propria operazione estetica, conservativa o nichilistica che sia: non avere alcun pubblico, interrompere radicalmente ogni possibilità di connessione dialogica con il lettore e restaurare il principio dell’arte per l’arte, sebbene in una declinazione totalmente depravata e cinica, sono parte integrante di questa operazione che occorre comprendere, studiare ed anche amare, ove possibile. Cercando in essa le ragioni estetiche di una sconfitta epocale.
«Al posto della logica del risparmio e del lavoro, che è stato l’oggetto della critica di Bataille, compare all’orizzonte l’estetica del consumo e dello spettacolo. L’homo ludens, che era stato messo nell’angolo dall’homo laborans del razionalismo ottocentesco, fa il suo ritorno alla grande e si attende il suo benessere dalla dea Fortuna: il miracolo prende il posto del piano programmatico, l’inaspettato dell’attesa, il meraviglioso dell’interessante. Il surrealismo non ha più ragione di esistere, perché è realizzato»
(Mario Perniola, Traumi e miracoli della comunicazione, Einaudi, 2009)
Davide Nota allega infine degli epigrammi (L’enigma naturale) di Antonio Porta, tratti dal primo numero (1964) della rivista “Malebolge”, nata proprio nell’ambito del Gruppo 63. I frammenti 6, 11, 12, 13 e 14 non sono stati inclusi in nessuna raccolta successiva.
1
Ogni giorno trova l’uscio bruciato,
un paio di scarpe, una presa di taba-
cco, in margine, l’annichilimento, u-
na giornata di sollievo, contro un pi-
lastro di marmo, il fuoco è su di lui,
sepolto sotto i suoi fiori, poteva an-
cora, se non l’avesse uccisa,
che cosa proporre, l’Europa intelligente, «la
libertà è il mio credo?», quando parla
ai cavalli e si illude chi pensa, il
graffio, non si farà, più, il gozzo.2
non appena si tolse la vita, sofferente,
con i guanti senza dita rifiutava la grazia,
vicino alla foresta, nel buio del corpo non
ricomincia a parlare, «sì, io sono un cinci-
llà», superstite dell’estate, dopo la piog-
gia di merda, ha un volto di bambino grigio
azzurro, dietro la porta a vetri, eretto,
con la coda di volpe, continua a telefonare.3
semina il germe del dubbio,
tutto è chiaro, tutto è o-
scuro, mostro secondo coscien-
za, e spera ancora, sulle origi-
ni, un debole amore insiste, pro-
mettere e non mantenere, esco-
no dalla tana, morenti, vi-
vono una notte, camminano.4
è un bene di tutti camminare,
comico ma osceno, patetica
testimonianza, scegliendo
rumori inutili, così credo,
per un pugno allo specchio,
no, non mi hanno picchiato,
è la forza d’urto che impegna
nelle scelte, nelle liti violente,
oppure me ne vado
quasi certamente oggi5
Nella pioggia di fuoco, a migliaia, qui a
Theothiucan, non rifiutano, minacciапо,
cincillà grigioazzurri, scavano nella saletta,
i ricchi d’arterio, senza pietà di sclerosi,
fingono di leggere, con un lungo monologo, in
agguato, senza gusto, né olfatto, né tatto.6
Poesia congelata, aperta in talune zone,
scampata alla sedia, senza un indirizzo,
chi legge e sceglie per non retrocedere,
vittoriosa attività, piuttosto limitata,
turisti clandestini, non parla, pesa cento
cinquanta chili, e si lamentano dell’ovest
depresso e abbandonato, del vino, dell’olio,
del rhum: la democrazia è in pericolo, festeggiano
i giorni del suo petrolio, non esistono.7
Lezione di pazienza, una necropoli celtica,
il maestro del dubbio, incursione notturna,
in punto di morte, perché è stanca,
nube velenosa, vuole tutto e grida
la sua innocenza, c’è una porta aperta,
ama la caccia alla volpe, tra atroci
sofferenze le meraviglie della terra,
dunque, senza spiegazione, nella villa del
vizio, qual è la verità.8
il mostro del dubbio esce dalla sua tana,
cammina felicemente, si riempie di fiori,
non l’hanno raggiunto, le macchine universali,
ascolta le sue cicale, morente, scongela
la poesia, dà lezioni di pazienza, corre.9
Ha ragione chi rimpiange il dolore
tra i superstiti divorati dagli squali,
cambia volto l’ultima bambina, dopo
un lungo monologo, e la pioggia di fuoco,
nel mare abituale, spie luminose che non
ubbidivano: «Stalin mi telefonò: ci sarà
la guerra», appena si tolse i guanti, sofferente,
rifiutando la grazia, attende che le rispondano10
dormiamo, non c’è nulla da fare o da dire,
no, non parla e ricomincia a vivere, senza
gusto, né olfatto, è tornato dissanguato,
impulso, modulo platonico, fucilato, strozzato,
ucciso in un agguato, teso a un’altra persona,
si è avvelenato, si scioglie la mano riattaccata,
infermo di mente, stampa banconote, fruga
nell’intimo, a sangue, con la frusta, ma in silenzio,
«sì, io sono un economico», in mezzo alla foresta,
un cincillà grigioazzurro, vicino al corpo, al buio,
pensiamo un altro gioco.11
tatto tra politica e mafia, concussione
e corruzione, troppi personaggi, troppi
tradimenti, potere economico, fuga
di capitali, nel lago, ve lo rimettono
di plastica, la catastrofe anticipata
battistrada dei commerci, dei nostri ricchi,
del dio fatto in casa, lo rieleggono, per lo zucchero
sugli occhi, per correre, contro il lancio degli aghi.12
ionesco. si trasforma in balletto, trafitto,
dostoevskij è pericoloso, esperto
in anatomia, père humilié, con due amanti
tra i piedi, sono tutti divisi e si legge
sempre meno, all’insegna dell’orrore,
in una squallida saletta, trionfa l’avarizia,
usano chiodi, condannano a morte i bambini.13
Coltelli e bastoni anche nel latte,
magra vendemmia, diserbanti e anti-
parassitari, non sapranno mai che cosa
vuol dire sicurezza, ladri di conigli,
contro l’idrofobia, aprono la crisi,
non lunga, non breve, caute sperimentazioni,
meno polio e più cancro, implosione,
nei giorni felici, senza le cicale, se
rischiano d’asfissiare, fanno un passo all’indietro.14
Crisi subito, vertice dopo, tra rottami
formali o reali, sono alti, bruni e baffuti,
chiedono gli errori che hanno giovato, indicano
con un bastone, al largo in fiamme, stasera
in porto, destino dei suoi morti felici,
dopo la sconfitta, basta scavare un poco
per trovarne a migliaia, qui a Theotihucan.
Bell’articolo, bravo.