Segnalo ai lettori l’eccellente inchiesta di Rossella Latempa dell’Associazione Roars in tre parti (qui, qui e qui) sulle “indagini internazionali” dell’OCSE e la “schedatura psicologica di massa dei minori italiani” effettuata dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (passato alle cronache come “Invalsi”). Si tratta di una denuncia coraggiosa del sistema di “quantificazione in vista di un obiettivo di performance” che l’Istituto sta ponendo in atto servendosi della scuola italiana come di un “gigantesco laboratorio di studi psicologici a costo zero”.
In particolare, nel saggio vengono evidenziati i risvolti huxleyani-orwelliani della mappatura delle soft skills che sarà presto effettuata su mandato dell’OCSE come parte di uno studio psicometrico globale, come sostengono i promotori dall’alto “valore predittivo” dal punto di vista sociale:
«pare che i ragazzi più estroversi saranno con maggiore probabilità attenti alla loro attività fisica da adulti; che chi è disponibile e aperto utilizzerà metodi contraccettivi o non fumerà; che chi è coscienzioso da bambino, sarà un guidatore accorto, mangerà bio e probabilmente non farà uso di droghe».
Lo “studio” sarà inoltre capace di offrire (sempre nelle intenzioni degli estensori)
«un protocollo universale: una valutazione totalitaria che, definito a priori il modo di essere giusto e quello sbagliato, misura, compara, approva o respinge; promette la costruzione di un uomo nuovo all’altezza degli standard di concorrenza. Un essere sano, emotivamente stabile, aperto agli altri e coscienzioso, che non farà uso di droghe, non fumerà, non berrà in eccesso; avrà rapporti sessuali stabili e protetti, guiderà con prudenza, mangerà sano e non dirà parolacce».
Difficile non condividere le “paranoie” dell’Autrice, corroborate da una non indifferente mole di dati e più che giustificate quando si giunge alla spinosa questione della profilazione dei minori
«in assenza di adeguata e preventiva informazione e con commistione di finalità, per le quali sarebbe stato necessario raccogliere consensi specifici e trasparenti».
Tuttavia, da “esterni” al mondo scolastico e in generale al sistema di istruzione italiano, ma da “interni” rispetto ai prolet (per restare in tema di distopie) vuoi per i pargoli di parenti e amici, vuoi per alcune iniziative di volontariato nei “quartieri difficili”, nutriamo una visione pessimista e disillusa sulla società odierna, la quale ci obbliga a problematizzare la questione, forse anche con qualche eccesso di cinismo.
Vediamo di arrivare subito al nocciolo senza perderci in giri di parole: il fatto è che nel Mondo Nuovo di Huxley, sostanzialmente, ci viviamo di già. Magari chi fa l’insegnante non se n’è accorto, perché impossibilitato a osservare la situazione da lontano o talmente “coinvolto” da aver assimilato l’involuzione del suo ambito lavorativo per gradi; però un uomo di trenta o quarant’anni mediamente acculturato ha invece l’opportunità di valutare il divario tra la “sua” scuola e quella dei suoi figli (al di là di qualsiasi o tempora, o mores).
I bambini di oggi, presi collettivamente, non sono solo psicopatici e delinquenti in nuce, ma a causa dell’uso spropositato delle nuove tecnologie manifestano anche sintomi da autismo indotto (per esempio l’incapacità di afferrare il benché minimo pensiero astratto o mantenere l’attenzione per più di trenta secondi). Passano le loro giornate su YouTube trasformando le loro testoline in autentiche discariche; utilizzano i social network come arma di terrorismo psicologico nei confronti dei coetanei; sono assuefatti a videogiochi tanto demenziali quanto orrendi, nei quali bisogna uccidere il nemico e ballare sul suo corpo (ecco cos’è quella danza cretina che ogni tanto si vede fare a qualche marmocchio); ascoltano terrificanti pezzi rap in cui si celebrano gesta di spacciatori e malavitosi (è quasi una fortuna che non apprendano nulla di quanto gli viene spiegato in classe, altrimenti con una minima infarinatura di inglese potrebbero già afferrare certi testi da trogloditi).
Ora, alla luce della situazione testé descritta (seppur in toni apocalittici e cupi), credo che l’onestà intellettuale (nonché il realismo) imponga di non confondere le cause con gli effetti: a mio parere, gli pseudo-comportamentisti dell’OCSE più che aspirare a colossali progetti di ingegneria sociale cercano semplicemente di “salvare il salvabile”. Giustissimo comunque il taglio “progressista” dato ai rilievi della Roars: il modello dei questionari sottende in effetti un’ispirazione “conservatrice”, che ha come scopo la creazione del “cittadino modello” più attraverso la persuasione che non la coercizione. Eppure anche nello scenario peggiore che si possa immaginare, quello in cui l’immensa mole di dati raccolti dalla profilazione di massa venisse poi utilizzata anche a fini commerciali, ci troveremmo costretti a riconoscere che persino l’incubazione del “consumatore ideale” avrebbe delle ricadute positive sulla società in termini di ordine e sicurezza.
È questo il motivo della polemica: a meno di un’improbabile “controrivoluzione” in campo educativo, l’unico modo per evitare che le “forze del caos” prendano il sopravvento nelle nostre collettività è appunto preservare le ultime macerie d’umanità. Ovviamente, pur trovando ripugnante il cinismo della dicotomia tra “bambino angelicato” e “bambino reale” (cioè il futuro consumatore modello) con la quale i “questionaristi” giustificano la loro inva(l)siva mappatura, purtroppo credo che in questa direzione qualcosa prima o poi andrà fatto, anche nel mero senso di una riproposizione di “esempi virtuosi” ai quali i giovani dovrebbero conformarsi.
Epperò, ancora, quando si accenna solo a tale eventualità, si viene subito tacciati di moralismo e bigottismo: perciò si rende necessario la distopia, la manipolazione emotiva, il controllo mentale, il lavaggio del cervello eccetera eccetera. Certo è paradossale che a condurci a tutto ciò siano stati cinquant’anni di “libertà assoluta” (dal Sessantotto in poi), ma in verità i polemisti reazionari avevano presente la reale natura del dilemma almeno dal 1789. Ora le nostre società sono pericolosamente vicine al “punto di non ritorno” dello sfaldamento e dell’ingovernabilità: gli effetti si possono “apprezzare” sia a livello macrocosmico che microcosmico, dalle sempre più numerose aree off-limits che costellano le periferia all’impotenza di un genitore nel tenere lontani i figli da tossicodipendenza, violenza, criminalità, vandalismo, gangsterismo, tribalismo eccetera.
Quanto più viene procrastinato il “cambio di rotta”, tanto più le modalità e i tempi delle decisioni future si faranno stringenti e vincolanti: a un certo punto saremmo costretti a scegliere tra il Panopticon di Bentham o la Controrivoluzione tout court, che appunto dovrà interessare tutti i campi. Dalla famiglia (più si scende in basso nella scala sociale e più il divorzio diventa devastante e insostenibile per la psiche del bambino – e dei genitori) alla sessualità (la paranoia sul “sesso sicuro” nasconde l’inquietante trasformazione dell’Aids in “malattia dei poveri”), dalla scuola (ritorno al nozionismo per il bene della stabilità mentale dei bambini – e degli insegnanti) alla politica (epurazione degli ultimi sessantottini dai partiti, dai parlamenti e dai ministeri).
Altrimenti, arriverà il giorno in cui ci si troverà costretti alla coercizione, magari a una forma tanto più “morbida” e subliminale quanto pervasiva e soverchiante, proprio attraverso quegli strumenti che attualmente ci sembrano ancora “giocattoloni”: il social network servirà a irrigidire le gerarchie sociali, i videogiochi a inculcare dogmi e doveri, la musica a ipnotizzare e sedare, il cinema a dissuadere da comportamenti anti-sociali eccetera…
Almeno “riconoscere il nemico”, cioè ammettere che cinquant’anni di Sessantotto ci hanno fatto più bene che male, sarebbe un passo nella direzione opposta a Huxley: ma nessun intellettuale ha davvero il coraggio di compierlo, preferendo semmai proporre soluzioni che sono giuste nella misura in cui le diagnosi sono sbagliate. E allora tanto vale che si inizi a “quantificare” quel poco che è rimasto.