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Sulla questione italo-americana

Questo scritto di Charlton Graham Parker-Thompson (qui qualche accenno sul personaggio) offre uno dei contributi più caustici al dibattito contemporaneo sul cattolicesimo d’oltreoceano: in esso l’Autore, un fiero americano di “razza pura” invita gli italiani (come gli irlandesi o i latinoamericani) a combattere la “etnicizzazione” della propria fede additando i pericoli che comporterebbe un proselitismo basato su motivi identitari, peraltro coniati da ambienti (come Hollywood) di certo non interessati alla diffusione del cattolicesimo negli Stati Uniti.

American History Χ-ριστός

 

Per cominciare, voglio rassicurarvi su un punto: Io odio gli italiani. Anzi, no, scusate, vorrei essere più preciso: Io odio gli “italiani” che gli americani hanno imposto al mondo. Potrei peraltro ripetere la stessa affermazione per irlandesi, polacchi e quelli che generalmente chiamiamo latinos.

Ho un’idea molto precisa al riguardo e spero che non appaia “complottista”. A mio parere la forte connotazione etnica che è stata data ai cattolici statunitensi soprattutto a livello di “cultura popolare” rappresenta a tutti gli effetti un’operazione di guerra psicologica [psyop] delle sgangherate élite politico-religiose che detengono il potere in questo Paese.

Io non penso che per essere cattolici si debba tagliare la testa ai galli, bere whisky dalla mattina alla sera, far parte della mafia o imprecare in idiomi sconosciuti. La riduzione della fede cattolica (che vuol dire “universale”, per chi se lo fosse scordato) a folklore da immigrati è un fenomeno insopportabile del quale il cinema americano è colpevole tanto quanto il Concilio Vaticano II, per motivi facilmente intuibili.

Non sto ovviamente facendo un discorso contro le diversità culturali e tanto meno nazionali (personalmente non ho alcun problema a definirmi “nazionalista”), ma in tal caso l’amor di patria non c’entra nulla: questa deriva andrebbe identificata come una sorta di inculturazione [enculturation] al contrario, dove non è il cattolicesimo a integrare i valori di una cultura a scopi di proselitismo, ma semmai è una “cultura” che si appropria del cattolicesimo e lo riduce a misera “identità”.

Emblematica, solo per fare un esempio, la controversia tra il vescovo di Columbus (Ohio) e il Presidente del locale “club degli irlandesi” riguardo le celebrazioni di San Patrizio, quando esse caddero durante la Settimana Santa: di fronte alle rimostranze del prelato, il quale chiedeva come minimo di spostare la ricorrenza (che negli Stati Uniti ormai ha perso qualsiasi carattere religioso), il leader dei paddy ribatté senza mezzi termini che «prima si nasce irlandesi e poi si viene battezzati come cattolici». Una oscena esibizione di americanismo (= rimpiangere da ubriachi una terra in cui non si è mai vissuti) che dovrebbe far comprendere appieno la mia tesi.

Questa polemica mi riguarda anche personalmente, poiché io sono un discendente di quei coloni inglesi che rimasero fedeli al Papa nonostante le persecuzioni e si stabilirono nel Maryland nel XVII secolo. Potete forse capire quindi quanto possano irritarmi gli stereotipi etnici che caratterizzano il cattolicesimo americano: nella “Terra di Maria”, in particolare, i miei patriarchi giunsero almeno un secolo addietro che il primo immigrato irlandese ci mettesse piede. Non per questo ho qualcosa contro gli irlandesi, anche se il semplice fatto che il mainstream stia continuamente a lisciarli dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme a chi è consapevole dei meccanismi con cui opera la propaganda.

Ad ogni modo, se proprio vogliamo metterla sul piano della “etnicità”, è comprovato storicamente che il nucleo del cattolicesimo americano sia British e non Irish. Per giunta la storia del mio Stato attesta come dopo secoli di scisma i “papisti” non si fossero arresi al Kulturkampf enriciano: se nell’Inghilterra degli Stuart i sudditi apertamente cattolici potevano essere calcolati nell’ordine dell’1%, nel Maryland coloniale gli inglesi cattolici già nelle prime ondate migratorie superavano il 10%, e in alcune contee raggiungevano picchi del 30%.

Soprattutto, si trattava di gente tosta, non chierichetti d’osteria: persone che avevano scelto il cattolicesimo (anche dopo Guy Fawkes, anche dopo la detronizzazione di qualsiasi sovrano avesse provato a smetterla con la buffonata dello scisma), con la consapevolezza di rischiare in ogni momento incarcerazione e martirio

Presumo tuttavia che gli italiani non sappiano nulla sull’argomento: giustamente, deve prevalere il connotato etnico (“materiale”, in ultima analisi), su quello spirituale. E dunque kolossal e fiction a manetta su mafiosi, pizza e “capocollo” [gabagool].

Non vorrei però che narrare le gesta dei miei avi nel difendere la Chiesa da nemici possenti apparisse come l’ennesima rivendicazione di una identità “carnale”, e non una testimonianza edificante sulla fede. Voglio perciò citare solo qualche episodio che potrebbe far ragionare gli italiani, come gli irlandesi o i messicani, su quanto poco sappiano del cattolicesimo negli Stati Uniti.

In primis, partirei dalla distruzione della biblioteca dei missionari gesuiti a Saint Inigoes per opera dei fanatici puritani sobillati dal commerciante di pellicce William Claiborne e dal corsaro Richard Ingle, giusto per nominare il bersaglio più grande delle loro “sacre” razzie nel Maryland. 

Si tratta di un evento storico che ho appreso perché… tramandato dalla mia famiglia. Una cosa che invece gli storici di regime non mancano mai di ricordare è che il «primo atto di tolleranza in lingua inglese» è attribuibile al Maryland. Parlo del Toleration Act del 1649, sorto in risposta alle minacce delle bande puritane fomentate dai decapitatori di “tiranni” dall’altra parte dell’oceano. 

Tale atto si impossessava delle paranoie sulla liberty utilizzandole in favore dei rifugiati cattolici inglesi, vietando ai fanatici di aggredirli verbalmente e fomentarsi a vicenda con sermoni, libelli e gazzette. Non a caso fu immediatamente abrogato dal cromwelliano Claiborne, ma ristabilito dal meritevole clan politico dei Clavert con una ispirazione che non esiterei a definire “costantiniana”.

È importante che qui il lettore italiano abbia ben presente come non si trattasse di una contesa tra “imperialisti” inglesi e irlandesi vestiti di verde e con una pinta di Guinness in mano: nonostante sia vero che i protestanti tentarono di strumentalizzare l’identità britannica come pura espressione di anti-papismo, essi avevano comunque qualche difficoltà a imporla a cattolici della loro stessa etnia.

Nella prima metà del XVIII secolo, decenni e decenni prima prima che centinaia di migliaia di irlandesi sbarcassero in Nord America, buona parte delle colonie furono “invase” sia dai giacobiti sostenitori del re legittimo Giacomo II (fenomeno ridotto dagli storici alla sola Scozia ma che in realtà riguardò tutto il Regno Unito) sia da rifugiati acadiani, che col passaggio della Nuova Scozia dai francesi agli inglesi furono sottoposti a una vera e propria deportazione ispirata più dall’odio religioso che etnico o “nazionale” (anche perché quelli che oggi vengono definiti cajun si erano accomodati alla British Rule e nel conflitto tra le due potenze, ad onta di quell’altra operazione di guerra psicologica nota come “sciovinismo francese”, erano rimasti neutrali).

A riprova del fatto che l’ostilità fosse religiosa e non etnica, sta il tentativo fallito di “etnicizzare” l’identità acadiana, schiacciandola su quella francese: forse è anche per questo che il “San Patrizio cajun, altrettanto variopinto e festoso, sia completamente snobbato dal mainstream (e dagli sponsor). Sarà che forse non si è riusciti a decattolicizzare totalmente la ricorrenza, sarà che forse la questione rimane sempre la stessa. E allora ci tocca tornare agli irlandesi.

Con le ondate migratorie dall’Isola di Smeraldo, i protestanti americani ebbero buon gioco a trasformare le contese teologiche (che irrimediabilmente avrebbero perso) in etniche ed identitarie: nel XIX secolo il celebre predicatore unitariano Theodore Parker coniò l’espressione “pauperismo celtico” [Celtic pauperism] per offrire ai polemisti infiniti spunti sulle correlazioni tra cattolicesimo e povertà, ignoranza e corruzione, con interessanti agganci a quell’eugenetica tanto di moda tra i liberal dell’epoca.

Questo pregiudizio culturale divenne talmente pervasivo da poter essere rintracciato anche tra personaggi “insospettabili” come l’inventore del telegrafo Samuel Morse (figlio del pastore fondamentalista congregazionalista Jedidiah Morse), il quale ha lasciato ai posteri notevoli opere di stampo che oggi diremmo “ultra-complottista”, tipo Foreign conspiracy against the liberties of the United States, dove il padre del “Codice” denuncia l’immigrazione irlandese come un piano ordito dai gesuiti per distruggere la nazione e imporre la tirannia papale sul Nuovo Mondo.

Sulla stessa linea, le varie associazioni protestanti, che contribuirono a esacerbare l’avversione degli Irishmen verso gli inglesi, più che legittima a giudicare da quanto ci insegna la storia: questo per puntualizzare che è lungi da me sostenere una sorta di “tendenza innata” degli irlandesi all’identitarismo, nemmeno quando, una volta raggiunta la maggioranza etnica tra i fedeli cattolici in varie città, cominciarono a lamentarsi degli accenti troppo francesi (o italiani o tedeschi) dei loro parroci. Tutte queste sono reazioni errate ma giustificabili contro un sistema che considerava gli irlandesi come dei subumani incapaci di “pensiero autonomo” (per motivi sia genetici e culturali) e perciò indegni di partecipare alla gloriosa democrazia americana. 

Purtroppo, accettando lo stesso schema mentale dei loro nemici, che in realtà era una risposta all’estrema facilità con cui le nuove generazioni di protestanti, indipendentemente dalla loro estrazione, riconoscevano la verità del cattolicesimo e si convertivano alla popery, i fedeli irlandesi sono caduti nella “trappola”

Difficile non vedere il legame tra l’etnicizzazione della fede cattolica e il teatrino sul “secondo Presidente cattolico” che attornia l’amministrazione Biden (posto che gli stessi dubbi andavano già espressi col “primo Presidente cattolico”, sul quale condivido la nota opinione di Rick Santorum [che durante le elezioni del 2012 affermò che il celebratissimo “discorso di Houston” di Kennedy lo faceva vomitare, ndT]). 

Adesso gli americani hanno un bel Presidente “cattolico” che parla della sua fede solo in termini di Irishness, peraltro piegando quest’ultima alle esigenze della propaganda sull’immigrazione e la “diversità”. L’emergere di un altro leader cattolico del genere potrebbe portare il cattolicesimo americano alla sua estinzione, e a confermare in maniera paradossale la veridicità di un noto motto memetico, With Irish you perish.

Non che l’entusiasmo attuale [fine 2022/inizio 2023] che circonda il repubblicano Ron DeSantis mi convinca di più, poiché il rischio è esattamente lo stesso: passare dalla diversity irlandese a quella italiana. E non sfugga l’animosità anti-papista che contraddistingue ancora il campo conservatore, la qual, seguendo le dinamiche storiche a cui si è accennato, porterà quasi certamente a rilanciare il tema della perfetta identificazione di italianità e cattolicesimo (una rappresentazione plastica di tutto ciò sono i nomignoli con cui il vecchio Donald Trump ha descritto il candidato, Meatball Ron [riferimento alle polpette giganti che gli italo-americani mettono nella loro ricetta degli spaghetti al sugo, paragonata alla stazza degli stessi, ndt] e Ron DeSanctimonious [questo prettamente riferito alla sua fede cattolica, ndt], evidentemente interscambiabili da una certa prospettiva).

Un dato di fatto è che nel giro di pochi anni il cattolicesimo politico americano ha perso in vivacità e freschezza, a fronte invece della potenza metapolitica rappresentata dalla fede cattolica, che continua ad attirare quei cristiani in balia dell’ormai secolare confusione rappresentata dal protestantesimo, amplificata dalle illusioni che un sistema solo all’apparenza “democratico” genera in un gregge senza pastore

Preghiamo affinché Dio, prima o poi, salvi l’America.

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