Ogni tanto riaffiora nella memoria collettiva quella celeberrima pubblicità di un dentifricio che aveva come slogan “Ti spunta un fiore in bocca”. Personalmente ogni volta che la sento mi sorge spontaneo un dubbio: è possibile che gli ideatori ignorassero il significato che Pirandello aveva dato all’espressione in una delle sue opere teatrali più conosciute, appunto L’uomo dal fiore in bocca?
Per risolvere la questione, sarebbe forse utile capire in primo luogo per quale categoria fosse stata pensata la réclame: che fosse davvero rivolta a una massa di semi-analfabeti pronta a scoprire le virtù dell’igiene orale, mandando in malora il cerusico del paesello? Difficile crederlo, eppure che nessuno finora abbia notato la coincidenza desta più di una perplessità.
Il primo dato che attira l’attenzione nel tremendo atto unico del Nobel di Girgenti, risalente al 1922, è l’ambientazione del dramma: un Caffè notturno della stazione, uno dei luoghi simbolo dei vari caroselli, sfruttato a dismisura anche da romanzieri e registi, al quale invano hanno provato a restituire l’aura poetica e pastorale tolta di mezzo da Pirandello nel giro di due battute.
Il dialogo iniziale tra L’uomo dal fiore e L’avventore esprime tutta la noia della chiacchiera quotidiana in una Italia che si ritrae inorridita e disorientata dalle virtù borghesi che ha appena iniziato ad assaporare. L’uomo dal fiore cova in sé più di un epitelioma: potremmo dire banalmente che esso è simbolo del mal de vivre, ma il modo in cui Pirandello ritrae il malessere attraverso il carattere italiano ha qualcosa di strabiliante e persino profetico. Che L’uomo dal fiore esista ancora oggi lo comprendiamo dalle sue stesse parole:
«Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo. (Pausa). Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio… Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un’idea.
[…] Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea».
Non credo che un pensionato o una casalinga potrebbero descrivere la loro quotidianità in maniera più netta: se avesse la televisione, L’uomo dal fiore probabilmente non uscirebbe nemmeno di casa.
«Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla».
Oggi tra le cause di tale angoscia forse metteremmo al primo posto la visione ossessiva dei telegiornali, che sottomettono psicologicamente lo spettatore con una sequela grandguignolesca di omicidi, rapine e stupri. L’uomo dal fiore sembra addirittura precorrere i tempi nell’accenno alla possibilità di un omicidio tanto insensato quanto attraente per i cronisti di nera:
«Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia: – Stupida! – scrollandola. Si piglia tutto. Resta li a guardarmi con certi occhi… con certi occhi che, le giuro, mi fan venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi a distanza».
In un passaggio successivo, L’uomo dal fiore diventa ancora più esplicito e riesce forse a dare un senso delle stragi quotidiane alle quali ormai assistiamo impotenti e increduli:
«Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io, ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché, lei capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e ammazzare uno che come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno…».
Il momento più coinvolgente è quando L’uomo dal fiore rivela la propria malattia all’interlocutore: si intuisce che se Pirandello fosse sopravvissuto quel tanto da vedere l’Italia del dopoguerra, l’avrebbe sbeffeggiata con gli stessi toni da commesso viaggiatore usati dal protagonista per confessare il proprio male.
«Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso”. E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica!».
Lei, egregio signore, ci ha la morte addosso! Ecco un altro slogan perfetto per il carosello di un’agenzia di pompe funebri. Il tono reclamistico tocca poi al suo apice nel momento della rivelazione:
«Ora io, (Si alzerà), caro signore, ecco… venga qua… (Lo farà alzare e lo condurrò sotto il lampione acceso), qua sotto questo lampione… venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – “Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!”».
L’uomo dal fiore vuol vendere la verità, il dolore, ma da bravo piazzista sa anche destreggiarsi tra un soggetto all’altro, muovendosi indifferentemente tra il dramma e l’idillio:
«Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, per lungo… come due labbra succhiose… Ah, che delizia! (Riderà. – Pausa). Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura. (Pausa) Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra…».
Non è questo un programma televisivo dei giorni nostri? Il servizio su un malato terminale o su un morto ammazzato ancora “fresco” che si interrompe per lasciare il posto a uno spot con due giovinette vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde a sorseggiare succo d’albicocca – oppure, perché no, mentre provano un nuovo dentifricio proprio al gusto di albicocca, o chissà quale altra diavoleria aromatizzata.
Volendo restare fedeli al testo, potremmo anche chiamare in causa la famigerata “incomunicabilità”. Con Bergman e Antonioni questa espressione è finita irrimediabilmente tra le grinfie dei barzellettieri e non c’è modo di ridarle nobiltà. Purtroppo non ho approfondito abbastanza il rapporto tra Pirandello e il cinema, per ipotizzare che con gli stessi mezzi egli avrebbe forse fatto meglio e non si sarebbe incagliato in stilemi e banalità “esistenzialiste”. Tuttavia si può sottolineare come, per comunicare la sua inquietudine profonda e la sua convinzione che «il mondo è merda» (M. Soldati), Pirandello non abbia mai avuto bisogno di deformare e snaturare eccessivamente il mezzo espressivo, se non in direzione della commedia, quasi per schermirsi e impedire a se stesso di diventare un funzionario della nuova industria culturale. In realtà la sua critica alla società contemporanea incide ancora oggi poiché non è subordinata a nessuna utopia o ideologia redentrice. La sfiducia nei confronti del sistema democratico emerge sottilmente anche in questo dramma:
«[…] Certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie».
Ne Il fu Mattia Pascal questa concezione della perdita di identità e del conseguente isolamento sociale sono più esplicite – in particolare nella figura del teosofo sui generis Anselmo Paleari e nell’idea “democraticissima” di poter cambiare vita in ogni istante, incarnandosi continuamente in nuove identità, senza mai soffermarsi un istante a considerare la propria condizione.
Tornando a L’uomo dal fiore, non so se le mie balzane interpretazioni abbiano convinto qualcuno: leggere il dramma come una macabra parodia dell’Italia borghese è ovviamente una forzatura anacronistica, tuttavia suscita ugualmente una qualche impressione immaginare quanti italiani abbiano canticchiato il motivetto del “fiore in bocca” senza avere alcuna percezione delle tenebre che esso porta con sé.