Continua la pubblicazione traduzione del saggio di E. Michael Jones Tolkien’s Failed Quest edito dalla Fidelity Press nel 2015. Qui la prima parte:
Tolkien e gli ebrei. Alla ricerca dell’anello mancante (I): L’influenza del filosemitismo britannico
Tolkien attinse, al pari di Shakespeare per la sua rappresentazione di un ebreo (Shylock) ne Il Mercante di Venezia, al patrimonio intellettuale dell’Occidente nel momento in cui assume come dato obiettivo l’avversione ebraica al lavoro, qualcosa che San Tommaso affermò esplicitamente circa otto secoli prima che Tolkien scrivesse Lo Hobbit.
Nel 1271 l’Aquinate ammoniva infatti Margherita di Fiandra in tal modo:
«Sarebbe meglio se [i sovrani delle nazioni] costringessero gli ebrei a lavorare per guadagnarsi da vivere, come fanno in alcune parti d’Italia, piuttosto che, vivendo oziosamente, si arricchiscano con la sola usura, e così i loro governanti venissero defraudati delle entrate. Allo stesso modo, e anche per loro colpa, i sovrani verrebbero defraudati delle proprie entrate se permettessero ai sudditi di arricchirsi solo con la rapina o il furto, poiché sarebbero tenuti a restituire [al vero proprietario] tutto ciò che hanno preteso da essi [i ladri]» (De Regimine Judaeorum).
Nel buon tempo antico, prima che Smaug giungesse, i nani non avevano bisogno di lavorare per coltivare il proprio cibo perché avevano denaro che potevano prestare a interesse. Erebor era il regno carnale e terreno degli ebrei, dove abbondavano oro e usura. O, per dirla con Tolkien:
«I padri ci pregavano di prendere i loro figli come apprendisti e ci pagavano profumatamente, specialmente con prodotti alimentari, che noi non ci curavamo di coltivare o di procurarci noi stessi. Tutto sommato erano dei gran bei giorni per noi, e il più povero aveva soldi da spendere e prestare, e tutto il tempo libero che voleva per fare le cose più belle per puro diletto; per non parlare dei giocattoli, i più magici e meravigliosi del mondo, di cui oggi non si ha assolutamente l’uguale. Così le sale di mio nonno si riempirono di armature, gioielli, incisioni e coppe, e il mercato di giocattoli a Dale divenne la meraviglia del Nord».
Privati dell’usura, i nani/ebrei furono costretti a lavorare in esilio dalla loro montagna santa:
«”Quei pochi tra noi che erano fuori al sicuro si sedettero e piansero, tenendosi nascosti, e maledissero Smaug; poi, inaspettatamente, fummo raggiunti da mio padre e da mio nonno con le barbe bruciate. Avevano un aspetto torvo e parlarono molto poco. Quando chiesi come avessero fatto a scampare, mi dissero di tenere a freno la lingua, e aggiunsero che un giorno, al momento opportuno, l’avrei saputo. Dopo di che ce ne andammo, e dovemmo guadagnarci da vivere come meglio potevamo ora qui ora là, fin troppo spesso costretti a umiliarci lavorando come maniscalchi o addirittura come minatori. Ma non abbiamo mai dimenticato il nostro tesoro rubato. E ancor oggi, che abbiamo messo da parte un bel po’ e non stiamo proprio tanto male, ammettiamolo pure”, e qui Thorin passò la mano sulla catena d’oro attorno al collo, “ancora oggi vogliamo riaverlo, e tornare a casa e rovesciare le nostre maledizioni su Smaug, se possiamo”».
La montagna solitaria è il Monte Sion. I nani ebrei che sono stati esiliati dal loro paradiso terrestre ora lo rivogliono indietro. “Con o senza il nostro aiuto”, dice Gandalf agli Elfi, “questi nani marceranno sulla montagna. Sono determinati a reclamare la loro patria” [la citazione è dal film di Peter Jackson]. Il re degli elfi è perplesso: “La presenza di questa compagnia di nani mi preoccupa. Non credo di poter tollerare una simile ricerca”. Tale diffidenza rispecchia quella di gran parte dell’aristocrazia inglese nei confronti del sionismo; Lady Galadriel però risolve la questione quando dice a Gandalf: “Hai ragione ad aiutare Thorin Scudodiquercia“, nonostante persino in lei, da sionista, insorgono dei timori sul fatto che “questa ricerca abbia messo in moto forze che non possiamo comprendere”.
Le conseguenze geopolitiche di una penetrazione anglo-ebraica nell’Impero ottomano sfuggono a Bilbo, ma il rappresentante della Piccola Inghilterra ha i suoi dubbi. Lui ha una casa; loro no. Gli manca la sua casa. Semplicemente non riesce a stare bene tra gli ebrei. [La citazione che segue è tratta ancora dal film di P. Jackson]
Bofur: «Dove credi di andare?».
Bilbo Baggins: «Torno a Gran Burrone».
Bofur: «No, no, non puoi tornare ora. Fai parte della Compagnia! Sei uno di noi».
Bilbo Baggins: «In realtà no, vero? Thorin ha detto che non dovevo venire, ha ragione. Non sono un Tuc, sono un Baggins, chissà che mi è saltato in testa. Non dovevo uscire dalla mia porta».
Bofur: «Hai nostalgia di casa, lo capisco io…».
Bilbo Baggins: «No, tu non puoi, tu non capisci, nessuno di voi capisce! Siete Nani! Siete abituati a questa vita, a vivere per strada, mai fissarsi in un posto, non appartenere mai a niente! … No scusami, non…».
Bofur: «No hai ragione. Non apparteniamo mai a niente. Ti auguro tutta la fortuna del mondo, dico davvero».
Il Troll della montagna non fa che rafforzare il nazionalismo dei Nani ebrei quando dice a Thror: «Non hai una montagna. Non sei un re, il che ti rende nessuno in realtà».
Alla fine del primo capitolo della sua trilogia su Lo Hobbit, Peter Jackson fa sì che Bilbo Baggins pronunci quella che potrebbe essere definita la versione della Terra di Mezzo della Dichiarazione Balfour:
«So che dubiti di me, lo so, lo so, l’hai sempre fatto. E hai ragione penso spesso a casa Baggins. Mi mancano i miei libri e la mia poltrona, il mio giardino; vedi quello è il mio posto. È casa mia. Perciò sono tornato, perché voi non ce l’avete, una casa. Vi è stata portata via. E voglio aiutarvi a riprendervela, se posso».
L’eredità del filosemitismo di Tolkien è compromessa da problemi artistici irrisolvibili, che portano a un’opera in ultima analisi incoerente. Tolkien era invischiato tra le proprie radici germaniche, sia biologiche che culturali, e la necessità di rendere gli Hobbit, i “villici” [rustic] inglesi, gli eroi della sua narrazione.
Anche alcuni commentatori ebrei contemporanei (cfr. Forward, 2012; Times of Israel, 2013) sostengono che Lo Hobbit sia una “riscrittura” del ciclo dell’Anello di Wagner purgata dall’antisemitismo, riportando citazioni dalla lettera in cui Tolkien rispondeva alle domande dell’editore tedesco che chiedeva qualche “certificazione” (Bestatigung) della sua “aranità” (cfr. Prima Parte):
«Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati. Ma se Voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo non sembra che tra i miei antenati ci siano membri di quel popolo così dotato».
E dalla missiva che inviò lo stesso giorno (25 luglio 1938) al suo editore inglese (Stanley Unwin):
«Devo sottostare a questa impertinenza perché ho un cognome tedesco, o le loro lunatiche leggi richiedono un certificato di origine arisch da tutte le persone di tutti i Paesi? Personalmente sarei incline a rifiutarmi e lasciare che la traduzione tedesca vada al diavolo. In ogni caso sarei fortemente contrario a far apparire in stampa una dichiarazione del genere. Non considero la (probabile) assenza di sangue ebreo come necessariamente onorevole; inoltre ho molti amici ebrei, e mi rincrescerebbe avvalorare l’idea di avere aderito alla teoria perniciosa e antiscientifica della razza».
“Depurando” la simbologia di Wagner dall’antisemitismo, Tolkien la privò anche del suo significato. Non importa cosa dicano gli ebrei, il vero problema in Das Rheingold è il capitalismo, non l’antisemitismo. Il Rheingold di Wagner è infatti una rappresentazione mitica delle origini del capitalismo nella rapina.
In Wagner sussiste una limpida corrispondenza tra simbolo e causalità morale. Il dramma inizia con il furto del Rheingold da parte dell’ebreo Alberich, il quale potrebbe essere una rappresentazione di Mayer Amschel Rothschild, il banchiere che fece sparire l’oro del Principe di Hesse-Cassel per portarlo in Inghilterra. Alberich forgia l’anello del capitalismo (o del Gold Standard) dall’oro rubato. Quando viene ingannato e gli viene portato via l’anello, Alberich lancia una maledizione su di esso, che passa a ogni nuovo proprietario, incluso Fafnir, il quale uccide suo fratello (proprio come Smeagol uccide Deagol) per ottenere l’anello e poi si trasforma in un drago per proteggere il tesoro d’oro. Il drago è l’avidità diventata mostruosa.
Il significato del simbolismo nel Rheingold di Wagner è subito evidente. Al contrario, il simbolisimo del Signore degli Anelli a decenni dalla pubblicazione resta ancora opaco e nessun tipo di interpretazione a posteriori in libri come Il Silmarillion può rettificare tale incoerenza. Tolkien negò, con particolare disonestà intellettuale, il suo debito nei confronti di Wagner perché una qualche familiarità con l’Autore avrebbe reso palese l’incoerenza dei suoi stessi scritti:
«Tolkien studiava Wagner e ascoltava la sua musica di frequente. Uno studente di Lewis, Derek Brewer, sosteneva che circolavano voci secondo cui Lewis e Tolkien assistessero ogni anno alla rappresentazione dell’intero ciclo dell’Anello a Londra. […] Nel 1934, Warnie Lewis annotò nei propri diari che lui e suo fratello assieme a Tolkien stavano traducendo in inglese il testo della seconda parte dell’Anello di Wagner, Die Walküre. “Partendo dalla complessità di Wotan“, scriveva Warnie, “abbiamo avuto una lunga e interessante discussione sulla religione, che è durata fino alle undici e mezza circa”» (cfr. B.J. Birzer, Tolkien, Wagner, Nationalism, and Modernity, conferenza per l’Intercollegiate Studies Institute, 3 agosto 2001).
Come sostiene il critico musicale del New Yorker Alex Ross (The Ring and the Rings, 14 dicembre 2003), i fan di Tolkien “hanno a lungo mantenuto un silenzio imbarazzato sull’influenza di Wagner”, convincendosi che il simbolo dell’Anello sia stato preso direttamente dalle saghe norrene originali, come la Saga dei Volsunghi e il Nibelungenlied, mentre è un dato di fatto che i simboli che compaiono nel Das Rheingold debbano la loro esistenza proprio al genio del compositore tedesco:
«L’idea di un anello onnipotente proviene direttamente da Wagner perché non c’è niente di simile nelle antiche saghe. È vero, la Saga dei Volsunghi presenta un anello di un tesoro maledetto, ma esso non possiede particolari poteri. Nel Nibelungenlied compare una bacchetta magica che potrebbe essere impiegata per governare il mondo, ma nessuno la uitilizza. Wagner ha combinato questi due oggetti nell’orribile amuleto forgiato da Alberich con l’oro del Reno. Quando Wotan ruba l’anello per i suoi scopi, Alberich lancia una maledizione su di esso e nel farlo parla del “signore dell’anello come schiavo dell’anello” [des Ringes Herr als des Ringes Knecht]. Tali dettagli rendono difficile credere alle ritrattazioni di Tolkien».
Tolti dal contesto wagneriano, i simboli di Tolkien diventano incoerenti. Come scrive ancora Ross, invece di diventare l’epopea britannica, il Signore degli Anelli diventa
«Una specie di operazione di “salvataggio”, per impedire l’uso improprio dei miti nordici, forse salvando persino Wagner da se stesso. Tolkien cercò, a quanto pare, di creare un Ring più gentile e affettuoso, una mitologia senza malizia. L’atto di redenzione del mondo, secondo l’espressione di Wagner, è compiuto dai piccoli hobbit, che non hanno pretese territoriali da avanzare nella Terra di Mezzo e desiderano semplicemente tornare al giardinaggio. Alla fine, gli elfi rinunciano al loro dominio, proprio come, in Wagner, gli dei cedono il loro. Eppure è un pacifico trasferimento di potere, nulla di apocalittico. La storia non finisce con il crollo del Valhalla, ma con il ripristino di un mondo devastato».
Il critico del “New Yorker” sottolinea inoltre l’assenza di qualsiasi significato sessuale dell’Anello negli scritti di Tolkien: «Quando Tolkien “rubò” l’anello di Wagner, mise da parte la sua caratteristica più importante, ovvero che può essere forgiato solo da chi ha rinunciato all’amore». Il problema tuttavia rimane più economico che sessuale. Se Das Rheingold riguarda il capitalismo, allora in una storia del genere l’Inghilterra deve fare la parte del cattivo. Ciò è ovviamente inaccettabile per Tolkien, il patriota inglese, e così i simboli di Wagner vengono riorganizzati per adattarsi alla sensibilità britannica perdendo forza, senso e coerenza nel processo.
(continua…)