Tolkien, Wagner e gli ebrei: alla ricerca dell’anello mancante

Questa è la mia traduzione del saggio di E. Michael Jones Tolkien’s Failed Quest edito dalla Fidelity Press nel 2015. Potete contribuire ad altre iniziative di questo tipo tramite una donazione.

Tolkien trasse i simboli principali de Lo Hobbit dal Ciclo dell’Anello di Richard Wagner, ma ogni volta che gli veniva menzionato il nome del grande compositore tedesco, lo scrittore inglese manifestava un certo nervosismo. Nella cultura britannica esiste da secoli una corrente filosemita, apprezzata dall’Autore, che mal si combinava con l’ispirazione di Wagner, portando Tolkien a un conflitto artistico che non riuscì a risolvere e che ha infine costretto il suo capolavoro all’incoerenza.

Tramite la “depurazione” del simbolismo wagneriano dall’antisemitismo, Tolkien sottrasse a esso il vero significato, la cui prospettiva polemica era in definitiva più orientata verso una condanna del capitalismo che non una mera espressione di odio antiebraico. Tuttavia, quando il capitalismo si manifesta come questione centrale, è inevitabile che l’Inghilterra passi dalla parte del male anche da una prospettiva “fantastica”: ecco perché Tolkien, da patriota, non poté accettare il vero significato di quei simboli e, per adattarli alla sensibilità britannica, tolse loro tutta la forza, nonché la coerenza.

Verso la fine di settembre del 1931, durante una delle sue ricorrenti crociere “terapeutiche” in alto mare, Montagu Norman, capo della Banca d’Inghilterra, ricevette un cablogramma dal suo omologo americano, George Harrison, successore di Benjamin Strong alla guida della Federal Reserve, nel quale gli domandava se potesse indagare sull'”improvviso calo della sterlina”. Norman rispose che non poteva spiegarsi il fenomeno, soprattutto perché, sebbene non ne avesse parlato nel suo messaggio, era assente dal lavoro dal 28 luglio, quando aveva abbandonato la banca perché si sentiva “strano”. Poco dopo, Norman ricevette un’altra nota più criptica in cui si annunciava che “la Vecchia Signora se ne va lunedì”.

La Old Lady in questione era la Vecchia Signora di Threadneedle Street, o la Banca d’Inghilterra, e si riferiva all’imminente abbandono del gold standard, ma Norman pensò erroneamente che si riferisse a sua madre che andava in vacanza.

Più o meno nello stesso periodo in cui l’Inghilterra abbandonava il gold standard, un professore di Oxford iniziò a raccontare ai suoi figli una favola della buonanotte su un drago a guardia di un tesoro. Il suo nome era J. R. R. Tolkien e la sua storia alla fine fu pubblicata come Lo Hobbit nel 1937.

Tolkien scrisse Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli con lo sguardo rivolto alla politica europea. Secondo il biografo ufficiale di Tolkien, Humphrey Carpenter [il cui volume, del 1977, è stato tradotto in italiano da Lindau nel 2016, ndt], la Contea era “la rappresentazione di tutto ciò che Tolkien amava di più dell’Inghilterra“. Più o meno nel periodo in cui Tolkien decise che il seguito dello Hobbit si sarebbe intitolato Il Signore degli Anelli, Chamberlain firmò l’accordo di Monaco con Hitler. Verso la fine degli anni ’30 era chiaro che l’Inghilterra sarebbe stata coinvolta in un’altra guerra nel Continente.

È noto che Tolkien, nella prospettiva di conflitto prossimo venturo, ritenesse i russi (che comunque disprezzava) “più responsabili dell’attuale crisi rispetto a Hitler”. I suoi sentimenti nei confronti della Germania erano invece ambivalenti. Tolkien possedeva un lignaggio tedesco e nonostante il suo nome attestasse le lontane origine germaniche, aveva combattuto contro i tedeschi nella battaglia della Somme nel 1918.

Un’esperienza, quella della guerra di trincea, che lo avrebbe influenzato per tutta la vita, e che fa capolino nel capitolo dedicato alle Paludi Morte de Il Signore degli Anelli. Tolkien comunque disprezzava anche Adolf Hitler, e nel 1941, in una lettera al fratello (ora in La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano, 2001, lettera n. 45) esprimeva sul personaggio queste opinioni:

«In questa guerra io ho un bruciante rancore personale, che mi renderebbe a 49 anni un soldato migliore di quanto non fossi a 22, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler (perché la cosa strana circa l’ispirazione demoniaca e l’impeto è che non riguarda per niente la statura intellettuale di una persona, ma riguarda la sola volontà). Sta rovinando, pervertendo, distruggendo, e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in una giusta luce».

L’ambiguità di Tolkien nei confronti della Germania deriva dal fatto che egli ha tratto le simbologie principali dei suoi romanzi dalla letteratura tedesca. Se Tolkien vedeva in Hitler una volgare caricatura del “nobile spirito nordico”, il suo rapporto con Richard Wagner era ancora più ambivalente. Infatti, pur essendo noto che Tolkien abbia preso i simboli principali dello Hobbit dal Ciclo dell’Anello di Wagner, egli si irritava sempre quando gli veniva menzionato il nome del compositore.

Humphrey Carpenter ci dice che ogni volta che Tolkien raccontava episodi orribili della Saga dei Volsunghi, aggiungeva sempre una frecciatina a Wagner, “la cui interpretazione di quei miti [norreni] disprezzava”. Quando Rayner, il figlio di dieci anni dell’editore Stanley Unwin, affermò che “l’anello di Frodo somigliava a quello dei Nibelunghi”, Tolkien, che appunto era sempre infastidito quando qualcuno paragonava i suoi scritti a Wagner, rispose dicendo che “entrambi gli anelli erano rotondi, e la somiglianza finiva lì”.

La causa principale di tale astio proveniva dall’antisemitismo wagneriano. Lo Hobbit fu pubblicato nell’anno della Kristallnacht, quando il sostegno inglese agli ebrei tedeschi giunse già massimi livelli. Gli inglesi avevano una lunga tradizione di filosemitismo assolutamente contrapposta alle idee di Wagner. Ciò portò ad un conflitto, anche a livello artistico, che Tolkien non riuscì a risolvere.

Barbara Tuchman sostiene che gli inglesi divennero notoriamente filosemiti in seguito alla Riforma, quando la Bibbia fu tradotta in inglese (cfr. B. W. Tuchman, Bible and Sword, New York University Press, 1956, p. 52):

«Con la traduzione della Bibbia in inglese e la sua adozione come testo sacro di riferimento per una Chiesa inglese autonoma, le tradizioni storiche e la legge morale della nazione ebraica divennero parte della cultura britannica, imponendosi lungo tre secoli come la più forte influenza su di essa. La Bibbia tradotta univa, per dirla con Matthew Arnold, “il genio e la storia di noi inglesi al genio e alla storia del popolo ebraico”. Ciò non è il solo elemento ad aver reso l’Inghilterra una nazione filosemita [Judeaophile], ma senza l’influenza della traduzione inglese della Bibbia è dubbio che la Dichiarazione Balfour sarebbe emanata in nome del governo britannico o che sarebbe stato stabilito il Mandato per la Palestina, anche considerando i fattori strategici entrati tardivamente in gioco» .

Quando si tratta di risalire alle origini del filosemitismo della nazione inglese, il capitalismo è un “colpevole” più papabile della Bibbia. Dopo una breve fase di “invasamento” filoebraico sotto puritani come Praise-God Barebone e rabbini come Menasseh ben Israel, “Locke dette lo sfratto ad Abacuc”, come scrisse Karl Marx nella sua disamina sulla rivoluzione del 1848, e il capitalismo Whig divenne di fatto la religione delle élite inglesi.

Lord Palmerston, profondamente indebitato con gli ebrei, usò la marina britannica per riscuotere i debiti dell’ebreo Don Pacifico in Grecia. A poco a poco, l’idea di una patria ebraica nel cuore dell’Impero Ottomano cominciò a prendere forma nelle menti delle élite mercantili e bancarie britanniche. L’11 agosto 1840, Palmerston scrisse una lettera al Times, sostenendo che un piano per utilizzare “gli ebrei come cuneo britannico all’interno dell’impero ottomano” era ora oggetto di “seria considerazione politica” (cfr. Tuchman, op. cit., pp. 113-122).

Verso la fine del XIX secolo il filosemitismo britannico si fuse con il sionismo ebraico e da ciò scaturì la Dichiarazione Balfour e la prima colonia ebraica in Palestina. Lord Shaftesbury espresse in modo esplicito il collegamento tra ebrei, inglesi e capitalismo quando sostenne che “l’Inghilterra è la grande potenza commerciale e marittima del mondo. All’Inghilterra spetta quindi naturalmente il ruolo di favorire l’insediamento degli ebrei in Palestina”.

Theodor Herzl, il padre del sionismo, concordava sul punto: “L’Inghilterra la grande, l’Inghilterra libera, l’Inghilterra con gli occhi fissi sui sette mari, ci capirà”. Il 2 novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour dichiarò che “il governo di Sua Maestà vede con favore l’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e farà tutto il possibile per facilitare il raggiungimento di tale obiettivo”.

Scrivendo Lo Hobbit sulla scia delle emozioni suscitare dagli eventi accaduti in Germania negli anni ’30, Tolkien si schierò dalla parte degli ebrei . Nel 1971 lo scrittore dichiarò alla BBC che i nani sono “ovviamente” ebrei: “Le loro parole sono semitiche, sono chiaramente costruite per essere semitiche. Gli hobbit sono solo dei villici [rustic] inglesi“. Bilbo, secondo Tolkien appunto rappresentante dei “villici”, dice a Smaug che i nani sono venuti, non tanto per l’oro, quanto per la vendetta: “Per Vendetta abbiamo
percorso salite e discese, siamo venuti sulle onde e sul vento”.

Quando Tolkien ricevette una proposta per una traduzione in tedesco de Lo Hobbit, avrebbe dovuto garantire all’editore di non avere antenati ebrei, richiesta che egli respinse come “impertinente e irrilevante”. Al fastidio seguì subito dopo una manifestazione di filosemitismo: «Se lei mi sta chiedendo se sono di origine ebraica, come mi pare di aver capito, le posso solo rispondere che mi rammarico di non avere, per quanto sappia, antenati di quel popolo eccezionale». Domande di questo tipo, continuava Tolkien, condurranno molto presto “al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio”.

Nella versione cinematografica de Lo Hobbit, Peter Jackson trasforma il filosemitismo di Tolkien in vero e proprio sionismo. La distruzione di Erebor da cui parte il film è una fusione tra la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e l’Olocausto. Dal momento che “nessun aiuto venne dagli elfi [cioè dall’aristocrazia europea] quel giorno, né nei giorni che seguirono”, Thror “non perdonò mai e non dimenticò mai”. I nani erano un popolo “una volta potente, ormai decaduto” in seguito all’attacco di Smaug. Dopo essere stati “derubati della loro patria, i nani di Erebor vagarono per le Terre Selvagge [o il deserto, wilderness]”, dove dovettero sopportare l’insulto più grande di tutti: lavorare per vivere, qualcosa di estraneo alla razza ebraica.

Il testo de Lo Hobbit è più ambivalente delle dichiarazioni di Tolkien alla BBC:

«I nani non sono eroi, bensì una razza calcolatrice con un gran concetto del valore del denaro; alcuni sono una massa infida, scaltra e pessima da cui tenersi alla larga; altri non lo sono, anzi sono tipi abbastanza per bene come Thorin e Compagnia, sempre però che non vi aspettiate troppo da loro».

Tolkien attinse, al pari di Shakespeare per la sua rappresentazione di un ebreo (Shylock) ne Il Mercante di Venezia, al patrimonio intellettuale dell’Occidente nel momento in cui assume come dato obiettivo l’avversione ebraica al lavoro, qualcosa che San Tommaso affermò esplicitamente circa otto secoli prima che Tolkien scrivesse Lo Hobbit.

Nel 1271 l’Aquinate ammoniva infatti Margherita di Fiandra in tal modo:

«Sarebbe meglio se [i sovrani delle nazioni] costringessero gli ebrei a lavorare per guadagnarsi da vivere, come fanno in alcune parti d’Italia, piuttosto che, vivendo oziosamente, si arricchiscano con la sola usura, e così i loro governanti venissero defraudati delle entrate. Allo stesso modo, e anche per loro colpa, i sovrani verrebbero defraudati delle proprie entrate se permettessero ai sudditi di arricchirsi solo con la rapina o il furto, poiché sarebbero tenuti a restituire [al vero proprietario] tutto ciò che hanno preteso da essi [i ladri]» (De Regimine Judaeorum).

Nel buon tempo antico, prima che Smaug giungesse, i nani non avevano bisogno di lavorare per coltivare il proprio cibo perché avevano denaro che potevano prestare a interesse. Erebor era il regno carnale e terreno degli ebrei, dove abbondavano oro e usura. O, per dirla con Tolkien:

«I padri ci pregavano di prendere i loro figli come apprendisti e ci pagavano profumatamente, specialmente con prodotti alimentari, che noi non ci curavamo di coltivare o di procurarci noi stessi. Tutto sommato erano dei gran bei giorni per noi, e il più povero aveva soldi da spendere e prestare, e tutto il tempo libero che voleva per fare le cose più belle per puro diletto; per non parlare dei giocattoli, i più magici e meravigliosi del mondo, di cui oggi non si ha assolutamente l’uguale. Così le sale di mio nonno si riempirono di armature, gioielli, incisioni e coppe, e il mercato di giocattoli a Dale divenne la meraviglia del Nord».

Privati ​​dell’usura, i nani/ebrei furono costretti a lavorare in esilio dalla loro montagna santa:

«”Quei pochi tra noi che erano fuori al sicuro si sedettero e piansero, tenendosi nascosti, e maledissero Smaug; poi, inaspettatamente, fummo raggiunti da mio padre e da mio nonno con le barbe bruciate. Avevano un aspetto torvo e parlarono molto poco. Quando chiesi come avessero fatto a scampare, mi dissero di tenere a freno la lingua, e aggiunsero che un giorno, al momento opportuno, l’avrei saputo. Dopo di che ce ne andammo, e dovemmo guadagnarci da vivere come meglio potevamo ora qui ora là, fin troppo spesso costretti a umiliarci lavorando come maniscalchi o addirittura come minatori. Ma non abbiamo mai dimenticato il nostro tesoro rubato. E ancor oggi, che abbiamo messo da parte un bel po’ e non stiamo proprio tanto male, ammettiamolo pure”, e qui Thorin passò la mano sulla catena d’oro attorno al collo, “ancora oggi vogliamo riaverlo, e tornare a casa e rovesciare le nostre maledizioni su Smaug, se possiamo”».

La montagna solitaria è il Monte Sion. I nani ebrei che sono stati esiliati dal loro paradiso terrestre ora lo rivogliono indietro. “Con o senza il nostro aiuto”, dice Gandalf agli Elfi, “questi nani marceranno sulla montagna. Sono determinati a reclamare la loro patria” [la citazione è dal film di Peter Jackson]. Il re degli elfi è perplesso: “La presenza di questa compagnia di nani mi preoccupa. Non credo di poter tollerare una simile ricerca”. Tale diffidenza rispecchia quella di gran parte dell’aristocrazia inglese nei confronti del sionismo; Lady Galadriel però risolve la questione quando dice a Gandalf: “Hai ragione ad aiutare Thorin Scudodiquercia”, nonostante persino in lei, da sionista, insorgono dei timori sul fatto che “questa ricerca abbia messo in moto forze che non possiamo comprendere”.

Le conseguenze geopolitiche di una penetrazione anglo-ebraica nell’Impero ottomano sfuggono a Bilbo, ma il rappresentante della Piccola Inghilterra ha i suoi dubbi. Lui ha una casa; loro no. Gli manca la sua casa. Semplicemente non riesce a stare bene tra gli ebrei. [La citazione che segue è tratta ancora dal film di P. Jackson]

Bofur: «Dove credi di andare?».
Bilbo Baggins: «Torno a Gran Burrone».
Bofur: «No, no, non puoi tornare ora. Fai parte della Compagnia! Sei uno di noi».
Bilbo Baggins: «In realtà no, vero? Thorin ha detto che non dovevo venire, ha ragione. Non sono un Tuc, sono un Baggins, chissà che mi è saltato in testa. Non dovevo uscire dalla mia porta».
Bofur: «Hai nostalgia di casa, lo capisco io…».
Bilbo Baggins: «No, tu non puoi, tu non capisci, nessuno di voi capisce! Siete Nani! Siete abituati a questa vita, a vivere per strada, mai fissarsi in un posto, non appartenere mai a niente! … No scusami, non…».
Bofur: «No hai ragione. Non apparteniamo mai a niente. Ti auguro tutta la fortuna del mondo, dico davvero».

Il Troll della montagna non fa che rafforzare il “nazionalismo” dei Nani ebrei quando dice a Thror: «Non hai una montagna. Non sei un re, il che ti rende nessuno in realtà».

Alla fine del primo capitolo della sua trilogia su Lo Hobbit, Peter Jackson fa sì che Bilbo Baggins pronunci quella che potrebbe essere definita la versione della Terra di Mezzo della Dichiarazione Balfour:

«So che dubiti di me, lo so, lo so, l’hai sempre fatto. E hai ragione penso spesso a casa Baggins. Mi mancano i miei libri e la mia poltrona, il mio giardino; vedi quello è il mio posto. È casa mia. Perciò sono tornato, perché voi non ce l’avete, una casa. Vi è stata portata via. E voglio aiutarvi a riprendervela, se posso».

L’eredità del filosemitismo di Tolkien è compromessa da problemi artistici irrisolvibili, che portano a un’opera in ultima analisi incoerente. Tolkien era invischiato tra le proprie radici germaniche, sia biologiche che culturali, e la necessità di rendere gli Hobbit, i “villici” [rustic] inglesi, gli eroi della sua narrazione.

Anche alcuni commentatori ebrei contemporanei (cfr. Forward, 2012; Times of Israel, 2013) sostengono che Lo Hobbit sia una “riscrittura” del ciclo dell’Anello di Wagner purgata dall’antisemitismo, riportando citazioni dalla lettera in cui Tolkien rispondeva alle domande dell’editore tedesco che chiedeva qualche “certificazione” (Bestatigung) della sua “aranità”:

«Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati. Ma se Voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo non sembra che tra i miei antenati ci siano membri di quel popolo così dotato».

E dalla missiva che inviò lo stesso giorno (25 luglio 1938) al suo editore inglese, Stanley Unwin:

«Devo sottostare a questa impertinenza perché ho un cognome tedesco, o le loro lunatiche leggi richiedono un certificato di origine arisch da tutte le persone di tutti i Paesi? Personalmente sarei incline a rifiutarmi e lasciare che la traduzione tedesca vada al diavolo. In ogni caso sarei fortemente contrario a far apparire in stampa una dichiarazione del genere. Non considero la (probabile) assenza di sangue ebreo come necessariamente onorevole; inoltre ho molti amici ebrei, e mi rincrescerebbe avvalorare l’idea di avere aderito alla teoria perniciosa e antiscientifica della razza».

“Depurando” la simbologia di Wagner dall’antisemitismo, Tolkien la privò anche del suo significato. Non importa cosa dicano gli ebrei, il vero problema in Das Rheingold è il capitalismo, non l’antisemitismo. Il Rheingold di Wagner è infatti una rappresentazione mitica delle origini del capitalismo nella rapina.

In Wagner sussiste una limpida corrispondenza tra simbolo e causalità morale. Il dramma inizia con il furto del Rheingold da parte dell’ebreo Alberich, il quale potrebbe essere una rappresentazione di Mayer Amschel Rothschild, il banchiere che fece sparire l’oro del Principe d’Assia-Kassel per portarlo in Inghilterra. Alberich forgia l’anello del capitalismo (o del Gold Standard) dall’oro rubato. Quando viene ingannato e gli viene portato via l’anello, Alberich lancia una maledizione su di esso, che passa a ogni nuovo proprietario, incluso Fafnir, il quale uccide suo fratello (proprio come Smeagol uccide Deagol) per ottenere l’anello e poi si trasforma in un drago per proteggere il tesoro d’oro. Il drago è l’avidità diventata mostruosa.

Il significato del simbolismo nel Rheingold di Wagner è subito evidente. Al contrario, il simbolismo del Signore degli Anelli a decenni dalla pubblicazione resta ancora opaco e nessun tipo di interpretazione a posteriori in libri come Il Silmarillion può rettificare tale incoerenza. Tolkien negò, con particolare disonestà intellettuale, il suo debito nei confronti di Wagner perché una qualche familiarità con l’Autore avrebbe reso palese l’incoerenza dei suoi stessi scritti:

«Tolkien studiava Wagner e ascoltava la sua musica di frequente. Uno studente di Lewis, Derek Brewer, sosteneva che circolavano voci secondo cui Lewis e Tolkien assistessero ogni anno alla rappresentazione dell’intero ciclo dell’Anello a Londra. […] Nel 1934, Warnie Lewis annotò nei propri diari che lui e suo fratello assieme a Tolkien stavano traducendo in inglese il testo della seconda parte dell’Anello di Wagner, Die Walküre. “Partendo dalla complessità di Wotan“, scriveva Warnie, “abbiamo avuto una lunga e interessante discussione sulla religione, che è durata fino alle undici e mezza circa”» (cfr. B.J. Birzer, Tolkien, Wagner, Nationalism, and Modernity, conferenza per l’Intercollegiate Studies Institute, 3 agosto 2001).

Come sostiene il critico musicale del New Yorker Alex Ross (The Ring and the Rings, 14 dicembre 2003), i fan di Tolkien “hanno a lungo mantenuto un silenzio imbarazzato sull’influenza di Wagner”, convincendosi che il simbolo dell’Anello sia stato preso direttamente dalle saghe norrene originali, come la Saga dei Volsunghi e il Nibelungenlied, mentre è un dato di fatto che i simboli che compaiono nel Das Rheingold debbano la loro esistenza proprio al genio del compositore tedesco:

«L’idea di un anello onnipotente proviene direttamente da Wagner perché non c’è niente di simile nelle antiche saghe. È vero, la Saga dei Volsunghi presenta un anello di un tesoro maledetto, ma esso non possiede particolari poteri. Nel Nibelungenlied compare una bacchetta magica che potrebbe essere impiegata per governare il mondo, ma nessuno la uitilizza. Wagner ha combinato questi due oggetti nell’orribile amuleto forgiato da Alberich  con l’oro del Reno. Quando Wotan ruba l’anello per i suoi scopi, Alberich lancia una maledizione su di esso e nel farlo parla del “signore dell’anello come schiavo dell’anello” [des Ringes Herr als des Ringes Knecht]. Tali dettagli rendono difficile credere alle ritrattazioni di Tolkien».

Tolti ​​dal contesto wagneriano, i simboli di Tolkien diventano incoerenti. Come scrive ancora Ross, invece di diventare l’epopea britannica, il Signore degli Anelli diventa

«una specie di operazione di “salvataggio”, per impedire l’uso improprio dei miti nordici, forse salvando persino Wagner da se stesso. Tolkien cercò, a quanto pare, di creare un Ring più gentile e affettuoso, una mitologia senza malizia. L’atto di redenzione del mondo, secondo l’espressione di Wagner, è compiuto dai piccoli hobbit, che non hanno pretese territoriali da avanzare nella Terra di Mezzo e desiderano semplicemente tornare al giardinaggio. Alla fine, gli elfi rinunciano al loro dominio, proprio come, in Wagner, gli dei cedono il loro. Eppure è un pacifico trasferimento di potere, nulla di apocalittico. La storia non finisce con il crollo del Valhalla, ma con il ripristino di un mondo devastato».

Il critico del “New Yorker” sottolinea inoltre l’assenza di qualsiasi significato sessuale dell’Anello negli scritti di Tolkien: «Quando Tolkien “rubò” l’anello di Wagner, mise da parte la sua caratteristica più importante, ovvero che può essere forgiato solo da chi ha rinunciato all’amore». Il problema tuttavia rimane più economico che sessuale. Se Das Rheingold riguarda il capitalismo, allora in una storia del genere l’Inghilterra deve fare la parte del cattivo. Ciò è ovviamente inaccettabile per Tolkien, il patriota inglese, e così i simboli di Wagner vengono riorganizzati per adattarsi alla sensibilità britannica perdendo forza, senso e coerenza nel processo.

Dopo che Bismarck unificò la Germania, l’appropriazione da parte di Wagner del Niebelungenlied divenne l’Iliade tedesca. E Tolkien aspirava a scrivere l’Iliade inglese. In una lettera a un potenziale editore del Silmarillion [Milton Waldman, 1951] infatti scrisse:

«Fin dall’inizio ero addolorato per la povertà del mio amato Paese: non aveva storie proprie (legate alla sua lingua e al suo suolo), non della qualità che cercavo e trovavo (come ingrediente) nelle leggende di altre terre. C’erano elementi greci, celtici, romanzi, germanici, scandinavi e finlandesi (che mi hanno molto influenzato) ma niente di inglese, a parte roba da libracci di misera cultura popolare».

Tolkien condivideva con Wagner il desiderio di fornire una mitologia al suo popolo. Laddove Wagner trovò fonti medievali per i suoi miti, Tolkien dovette inventarsele. Sfortunatamente, le aspirazioni “inglesi” di Tolkien si scontrarono con i miti tedeschi che scelse di incarnare. Non fu solo il suo patriottismo a costringerlo a spogliare i simboli di Wagner del loro significato economico: Tolkien fu anche una vittima della crociata anticomunista cattolica. Come molti cattolici della sua generazione, Tolkien non riuscì a comprendere che il bolscevismo era figlio del liberalismo inglese:

«Tolkien odiava il socialismo in qualsiasi forma, nazionale o internazionale […]. Come molti cattolici conservatori degli anni ’30 e ’40, Tolkien credeva che il comunismo rappresentasse una forma di tirannia ancora più pericolosa del fascismo. Se odiava il fascismo, odiava ancor di più il comunismo. Molti dei cosiddetti fascisti, come Franco in Spagna, proteggevano la Chiesa cattolica, mentre i comunisti avevano sempre aggredito qualsiasi forma di teismo, sostituendo la propria ideologia alle credenze cristiane. Tolkien si fatto convincere in particolare dal poeta Roy Campbell, che in Spagna si era convertito al cattolicesimo ed era diventato un convinto sostenitore di Franco. Incontrando Tolkien e Lewis nell’ottobre del 1944, Campbell parlò loro delle atrocità contro i cattolici commesse da comunisti e socialisti in Spagna. Alla fine della serata, Campbell aveva convinto Tolkien della correttezza della posizione di Franco nella guerra civile spagnola, e Tolkien concluse che Campbell era un moderno Aragorn, che viaggiava per il mondo e lottava contro i poteri costituiti, per difendere la gloria di Dio
I cattolici provavano una particolare avversione per il comunismo a causa di due importanti eventi avvenuti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Nel 1884, Papa Leone XIII ebbe una visione in cui vide dei diavoli vagare per la terra, devastandone gran parte. Per aiutare a combattere questo possibile futuro, compose la “Preghiera a San Michele”, chiedendo a Dio di scatenare il Santo per combattere contro i demoni e il diavolo e riportarli tutti all’inferno. La Istituì come preghiera conclusiva di tutte le messe. La maggior parte dei cattolici del XX secolo vedeva il comunismo come l’esplosione satanica che Papa Leone aveva predetto. Di certo Tolkien diede a Manwë un ruolo di primo piano nella gestione della Terra di Mezzo, nominandolo Vice-reggente: e Manwë rappresenta San Michele Arcangelo.
In secondo luogo, nel 1917, a Fatima, in Portogallo, la Beata Vergine Maria apparve a dai bambini, rivelando loro diversi segreti riguardanti il ​​XX secolo. Una delle prime rivelazioni, tuttavia, fu che il comunismo sarebbe diventato il più grande nemico mondano della Chiesa […]. Tolkien temeva il comunismo anche per il suo potenziale distruttivo dopo la fine della Seconda guerra mondiale» (cfr. B.J. Birzer, op. cit.).

Tolkien in ultima analisi non può spiegare il significato dei simboli che ha tratto da Wagner perché tali simboli contraddicono la causalità morale del suo racconto. Tolkien iniziò il seguito di Lo Hobbit nel dicembre 1937, tre mesi dopo la pubblicazione, non avendo però ancora “un’idea chiara su cosa avrebbe riguardato la nuova storia”. A poco a poco, l’anello emerse come simbolo centrale del seguito. “Fai del ritorno dell’anello un movente”, appuntò Tolkien nei sui diari. L’anello, proseguiva Tolkien, “non è molto pericoloso quando usato per un buon scopo. Ma esige il suo pegno: o lo perdi, o perdi te stesso“. Nel febbraio del 1938, Tolkien inviò una copia del primo capitolo a Stanley Unwin, chiedendo ancora una volta l’opinione di Rayner, ma ci sarebbero voluti altri dodici anni prima che Il Signore degli Anelli fosse terminato. L’anello si replicò in un certo numero di anelli, ma questa moltiplicazione non chiariva l’incoerenza che aveva intaccato il simbolo centrale del libro quando fu strappato dalla sua matrice wagneriana e anticapitalista.

Le stesse considerazioni valgono per il simbolo del drago. A differenza di Das Rheingold, dove il simbolo ha un chiaro significato morale e psicologico, Smaug compare solo all’inizio de Lo Hobbit. Tolkien improvvisa una causalità morale quando afferma che “i draghi bramano l’oro con un desiderio oscuro e profondo”, ma cosa significa? Poi ci dice: “Senza dubbio, è stato questo desiderio a portare il drago”. E poi: “L’amore di Thror per l’oro era diventato troppo feroce. Come una malattia aveva iniziato a crescere dentro di lui. Era una malattia di luce e dove prospera la malattia, seguiranno cose brutte”. Ma qual è la connessione tra l’avidità nanica (o ebraica) e Smaug? Non c’è alcuna connessione.

La versione di Jackson è ancora meno coerente di quella di Tolkien. Se il filosemitismo di Tolkien ha distorto la sua visione dei simboli di Wagner, il sionismo di Jackson lo rende cieco alle implicazioni dei simboli centrali del suo film. Il drago fa solo capolino: “La prima cosa che hanno sentito è stato un rumore come un uragano che scendeva dal nord… Era un drago di fuoco dal nord. Smaug era arrivato… Perché i draghi bramano l’oro con un desiderio oscuro e profondo… Perché un drago custodirà il suo bottino finché vivrà”.

Se il tesoro dei nani simboleggia la dipendenza ebraica dall’usura, il libro di Tolkien inizia ad avere senso, ma se gli ebrei sono colpevoli di usura, allora non sono più le vittime innocenti ritratte nel suo libro e, a maggior ragione, nel film di Jackson. Tolkien accusa gli ebrei senza convinzione, e poi li “lascia andare”. Tolkien non può avere entrambe le cose. Non può essere filosemita e moralmente coerente. Se la distruzione di Dale è una resa simbolica della distruzione del Tempio, allora gli ebrei meritavano il loro destino.

Per rendere il tutto ancor più nebuloso, Tolkien confonde l’Anello di Wagner con il Tarnhelm, l’elmo magico che consente di mutare forma e divenire invisibili. In Wagner, l’Anello è forgiato con dell’oro rubato, proprio come il gold standard e il capitalismo sono nati dal furto. In Wagner, il Tarnhelm simboleggia l’invisibilità della classe dei creditori in una società capitalista. Negli scritti di Tolkien, l’anello conferisce potere e rende invisibile chi lo indossa, una fusione che rende il simbolo incomprensibile. Secondo Tolkien, Gollum voleva l’anello

«perché era un anello magico, e se uno se lo infilava al dito diventava invisibile; solo in pieno sole si poteva esser visti e d’altronde solo a causa della propria ombra, che sarebbe stata vaga e indistinta. […] All’inizio Gollum lo portava al dito, finché il dito non gli si stancò; poi lo conservò in un sacchetto a contatto della pelle, finché la pelle non gli si irritò; e ora di solito lo teneva nascosto in un buco della roccia sul suo isolotto, e tornava sempre indietro a guardarlo. A volte però se lo rimetteva al dito, quando non poteva sopportare di rimanerne separato più a lungo, o quando aveva tanta, tanta fame ed era stanco di mangiare pesce».

In un successivo passaggio, Tolkien fornisce altre delucidazioni sulla capacità dell’Anello di rendere invisibile chi lo indossa, ma esse non stabiliscono in alcun modo una connessione tra l’anello e la causalità morale al centro del racconto:

«Pareva che l’anello che aveva fosse magico: rendeva invisibili! Naturalmente aveva sentito parlare di queste cose, nelle antiche leggende; ma era difficile credere che ne avesse realmente trovato uno, così per caso. Eppure era proprio la verità: Gollum coi suoi occhi luminosi lo aveva oltrepassato, correndo a meno di un metro di distanza da lui».

L’unica volta in cui i simboli di Tolkien assumono un significato plausibile è quando ritornano alla loro matrice wagneriana, come quando ci racconta che i nani, cioè gli ebrei, rubarono l’oro degli elfi. “Nei tempi passati”, ci dice Tolkien, gli elfi, “che sono le brave persone”, cioè l’aristocrazia:

«erano stati in guerra contro alcuni nani, che essi accusavano di avere rubato il loro tesoro [come Rothschild aveva rubato quello del Principe d’Assia-Kassel]. Per correttezza bisogna dire che i nani davano un’altra versione, e dicevano che avevano preso solo quanto era loro dovuto, poiché il re degli Elfi aveva stipulato un contratto con loro per fondere l’oro e l’argento grezzo che aveva, e poi si era rifiutato di pagarli. Infatti, se il re elfico aveva una debolezza era per i tesori, specialmente per l’argento e le gemme bianche; e benché la sua riserva fosse abbondante, era sempre avido di arricchirla, perché il suo tesoro non era così grande come quello di altri signori elfici del passato. Il suo popolo non estraeva dalle miniere né lavorava metalli o gemme, e non perdeva tempo a commerciare o a coltivare la terra [La Spagna dopo l’espulsione degli ebrei]. Tutto ciò era ben noto a ogni nano, anche se la famiglia di Thorin non aveva avuto niente a che fare con la vecchia lite di cui sopra. Di conseguenza Thorin era furioso per il modo in cui lo trattarono quando tolsero l’incantesimo che avevano gettato su di lui ed egli ritornò in sé; inoltre decise che non gli avrebbero cavato fuori neanche una parola sull’oro o sui gioielli».

L’aristocrazia, in altre parole, si era fatta corrompere dall’usura e dall’oro ebraici. Alla fine, il Vecchio Maestro, che prese il controllo di Dale dopo che Bard aveva ucciso Smaug,

«aveva fatto una brutta fine. Bard gli aveva dato molto oro per aiutare la gente del lago, ma essendo di quella razza che prende facilmente certe malattie, egli cadde in potere del drago e, presa con sé la maggior parte dell’oro, fuggì, e morì di fame nel Deserto, abbandonato dai suoi compagni».

L’usura era il tallone d’Achille dell’Occidente cristiano. A differenza dell’islam, la Chiesa non è mai riuscita a risolvere questo dilemma. Nella sua lettera a Margherita di Fiandra, Tommaso d’Aquino afferma che la soluzione al problema dell’usura è confiscare i guadagni usurari illeciti degli ebrei e restituirli a coloro che ne sono stati defraudati:

«gli ebrei della vostra terra sembrano non avere altro che ciò che hanno acquisito con la depravazione dell’usura. E perciò di mi chiedete se non sia lecito esigere da loro qualcosa, e a chi debbano essere restituite ciò che viene preteso. A questo proposito mi pare che la risposta debba essere questa: poiché gli ebrei non possono trattenere lecitamente le cose che hanno estorto agli altri con l’usura, ne consegue che, anche se aveste ricevuto queste cose da loro, non potreste trattenerle lecitamente, a meno che non si tratti di cose che essi avessero finora estorto a voi o ai vostri predecessori. Se infatti possiedono cose estorte ad altri, queste cose, una volta richieste loro, le dovrete restituire a coloro ai quali gli ebrei erano tenuti a restituirle: pertanto, se si scoprissero persone a cui gli ebrei hanno applicato l’usura, i proventi di tale attività dovrebbero essere riconsegnati alle vittime; altrimenti dovranno essere accantonati per usi pii secondo il consiglio del Vescovo diocesano e di altri uomini onesti, o anche per il bene comune dei vostri territori se si presentasse una necessità e l’utilità lo richiedesse; né sarebbe illecito se voi richiedeste nuovamente agli ebrei i proventi dell’usura conservando l’usanza dei vostri predecessori, con l’intenzione di spendere il denaro per gli scopi a cui si è appena accennato».

L’Aquinate chiarisce poi che la stessa regola di restituzione si applica agli usurai cristiani (caorsini) e “a chiunque altro dipenda dalla depravazione dell’usura”.

Ci sono dei cattolici che difenderebbero ancora il gold standard. Secondo Harry Vereyser, il XIX secolo fu un secolo di pace grazie alle premesse del liberalismo classico: «Semplici idee economiche come il gold standard, l’apertura dei mercati e la libertà». Vereyser dimentica però di menzionare il ruolo che il gold standard ebbe nel causare la Rivoluzione del 1848 e la carestia irlandese.

Quando i governi europei furono costretti a usare l’oro, l’unica valuta internazionale riconosciuta all’epoca, per acquistare cibo, dovettero contrarre l’offerta di moneta per compensare le riserve auree esaurite. Quando entità finanziarie come la Banca d’Inghilterra contrattarono l’offerta di moneta, causarono il panico del 1847 e la recessione che ne seguì causò poi la Rivoluzione del 1848, facendo anche morire di fame due milioni di irlandesi. A parte questo, il gold standard fu totalmente benigno…

L’oro, ci viene detto, annienta le aspettative inflazionistiche. Oppure, per dirla ancora con Vereyser: «L’istituzione del gold standard ha causato la scomparsa delle aspettative inflazionistiche». Vereyser cita poi l’economista austriaco Ludwig von Mises, che considera l’inflazione semplicemente come «un aumento della quantità di denaro [che] riduce il potere d’acquisto dell’unità monetaria» (cfr. H. C. Vereyser, It Didn’t Have To Be This Way, ISI Books, Wilmington, 2012).

Von Mises però propone una spiegazione troppo semplice. L’inflazione non si verifica quando aumenta l’offerta di moneta, ma quando aumenta oltre la quantità di beni e servizi prodotti da un’economia nazionale. Ecco perché il quantitative easing non ha causato inflazione. La diminuzione dell’offerta di moneta totale al di sotto della quantità di beni e servizi è peggiore, perché causa deflazione, lo stato cronico di tutte le economie basate sul gold standard.

In un periodo di deflazione, tutti soffrono tranne coloro che possiedono oro. Ecco perché certi ebrei come l’economista della scuola austriaca Murray Rothbard approvano la deflazione: fa gonfiare il valore dei “ducati” ebrei. Perché un cattolico debba sostenere un’idea ebraica dell’economia rimane un mistero, poiché essa dovrebbe essere totalmente incompatibile con la sua concezione.

Anthony Santelli, nella sua introduzione al volume The Church and the Usurers di Brian McCall, propone una soluzione più in linea con il pensiero di San Tommaso:

«La via d’uscita dall’attuale crisi economica è la stessa strada intrapresa per uscire dall’ultima crisi economica: una più ampia distribuzione della ricchezza della nazione. Una più ampia distribuzione della ricchezza significa una domanda più ampia […] che a sua volta significa più produzione e occupazione».

La soluzione all’attuale crisi economica è la stessa soluzione a qualsiasi altra crisi economica degli ultimi 500 anni, vale a dire l’abolizione dell’usura. Una volta eliminata l’usura dall’economia, coloro che ne hanno tratto profitto, gli ebrei e i moderni “caorsini”, devono restituire i loro guadagni illeciti alle persone a cui li hanno sottratti. Stiamo parlando, per esempio, del trasferimento di circa 15mila miliardi di dollari nelle tasche dei cittadini americani:

«Non abbiamo bisogno di scatenare la Terza Guerra Mondiale per infondere sufficienti quantità di denaro tra le masse. Piuttosto, ciò può essere realizzato attraverso la restituzione di fondi sottratti alle persone da banche e altri creditori sotto forma di interessi eccessivi o usura. L’entità dell’usura pagata dal solo governo federale dal 1950 supera i 6mila miliardi di dollari. Se aggiungiamo l’usura pagata dagli individui sulle loro carte di credito e sui mutui immobiliari dal 1950, il totale supererebbe i 15mila miliardi di dollari, o più del debito personale totale della nazione, che è poco meno di 14mila miliardi».

A differenza della nostalgia per un’età dell’oro perduta che tormenta la scuola austriaca, la soluzione cattolica all’attuale crisi risolverebbe contemporaneamente una serie di problemi:

«Restituire i fondi ingiustamente sottratti alle persone nel corso degli anni facendo loro pagare interessi usurari sui prestiti, eliminerebbe, in media, il debito personale. Fornirebbe inoltre alle persone risparmi significativi» (cfr. B. M. McCall, The Church and the Usurers. Unprofitable Lending for the Modern Economy, Sapientia Press, Ave Maria, 2013).

Quando la nave di Montagu Norman attraccò finalmente a Liverpool il 23 settembre 1931, l’Inghilterra era fuori dal gold standard da due giorni e il lavoro di una vita del capo della Banca d’Inghilterra era stato distrutto, per non essere mai più recuperato. Otto giorni prima che la nave attraccasse, i marinai della base navale di Invergordon si erano ribellati per mancanza di paga, causando una perdita di fiducia nella posizione finanziaria dell’Inghilterra e una corsa alla sterlina. «La reazione degli investitori stranieri fu di panico istintivo. L’oro sparì dalla Banca d’Inghilterra come un fulmine. Quasi 40 milioni di sterline scomparvero in una sola settimana» (A. Boyle, Montagu Norman. A Biography, Weybright and Talley, New York, 1967, p. 275).

Gli investitori avevano cominciato a manifestare un certo nervosismo fin dal marzo 1931, quando il rapporto Macmillan rivelò che Londra era tecnicamente in bancarotta, con un debito di 471 milioni di sterline coperto da soli 153 milioni di attività di denaro a breve termine, il che la lasciava esposta a un deficit netto di 254 milioni di sterline. Data una situazione finanziaria precaria come questa, la rivolta di Invergordon fu la goccia che fece traboccare il vaso. Lunedì 21 settembre, Philip Snowden sospese la convertibilità e l’Inghilterra uscì una volta per tutte dal gold standard. Il gold standard era crollato, per non tornare mai più.

AVVERTENZA (compare in ogni pagina, non allarmatevi): dietro lo pseudonimo Mister Totalitarismo non si nasconde nessun personaggio particolare, dunque accontentatevi di giudicarmi solo per ciò che scrivo. Per visualizzare i commenti, cliccare "Lascia un commento" in fondo all'articolo. Il sito contiene link di affiliazione dai quali traggo una quota dei ricavi. Se volete fare una donazione: paypal.me/apocalisse. Per contatti bravomisterthot@gmail.com.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.