Trap, l’ultimo film di M. Night Shyamalan appena uscito nelle sale italiane e strombazzato come il thriller dell’anno, è l’ennesima epitome della carriera ondivaga e incostante di un regista che, al di là di rari sprazzi, sempre più spesso delude inevitabilmente ogni aspettativa. Il problema fondamentale dell’artista sembra l’incapacità di gestire l’ambizione, che a livello cinematografico si mescola con le tendenze visionarie e una propensione a volte esagerata per il colpo di scena (essa stessa uno dei fattori che tradisce le aspettative di cui sopra).
Nel caso di Trap, che dovrò necessariamente spoilerare (come al solito, decidete voi se sprecare il vostro tempo guardando il film o leggendo ciò che scrivo), l’identità del serial killer che l’FBI vorrebbe -appunto- “mettere in trappola” durante un concerto pop a cui si è recato con la figlia, viene immediatamente rivelata dopo pochi minuti dall’inizio della pellicola.
Tale impostazione rispecchia già di per sé un “tradimento” dell’ispirazione di Shyamalan, che presenta allo spettatore un personaggio dai contorni netti, un cattivo senza troppe ambiguità (a parte i problemi con la mamma che l’hanno fatto diventare un assassino seriale, stereotipo buttato nella trama ormai per compulsione), il quale si comporta quasi esattamente come ci si aspetterebbe da un criminale spietato braccato da centinaia di poliziotti.
Da tale prospettiva, è piuttosto imbarazzante che il regista abbia voluto presentare il suo film come “una versione de Il Silenzio degli Innocenti ambientato a un concerto di Taylor Swift”, poiché è come se avesse confessato un’evidente mancanza di ispirazione, che è poi la stessa dell’intero genere, o del cinema americano tout court, nel momento in cui esso si ostina a rappresentare il fenomeno dei serial killer con gli stilemi del banditismo romantico, un’estetizzazione da feuilleton francese primonovecentesco che appare insostenibile per una società in cui sono morte dalle 10.000 alle 12.000 vittime per mano dell’Hannibal Lecter di turno (dati della Radford University).
Sarebbe un enorme progresso per la cultura popolare americana se ogni cento film sugli assassini intelligentissimi e coraggiosissimi ne venisse prodotto almeno uno in cui si mostrassero tali “eroi” come realmente sono: stupidi, ottusi, brutali, vigliacchi eccetera. Non penso che le masse americane siano davvero così affascinate dal crimine come potrebbe apparire da quel che passa nel mainstream: più che altro, mi pare che Hollywood sia intenzionata a non offrire mai alcuna “alternativa .
Tornando a Trap, siccome Shyamalan, come notavo, stavolta non è riuscito a imbastire alcun plot twist sembra che egli abbia cercato di stupire il pubblico mettendo in scena situazione assurde, come il protagonista che riesce a rapire per ben due volte la pop star (interpretata peraltro dalla figlia del regista, che è ovviamente bellissima e bravissima come tutte le “figlie di” e rappresenta un fulgido esempio di meritocrazia americana) e sguscia come un’anguilla da tutti gli agguati della polizia (con un finale che apre una finestra su eventuale sequel-non-sequel come ci ha già abituato l’Autore).
Shyamalan ha affermato di essersi ispirato alla famigerata Operation Flagship, forse la più celebre operazione sotto copertura organizzata dalle forze dell’ordine americane, attraverso la quale nel 1985 i poliziotti riuscirono a incastrare un centinaio di ricercati regalando loro dei biglietti per una partita di football. È triste che l’unica opera basata “ufficialmente” su tale episodio sia proprio Trap (al di là di una puntata dei Simpson che qualcuno ricorderà): come se il cinema americano non potesse più a uscire dai propri cliché, obbligandosi a un’ambiguità morale sempre meno affascinante e ormai propensa allo squallore e alla monotonia.
Interessante.
Vedremo come sarà il 2025 per il cinema americano che al momento sta attraversano un momento abbastanza di crisi con flop e sale in crisi negli U.S.A.