Trent’anni di condominio

Condominio. Non è facile parlare dal confine estremo dell’inurbamento italiano senza farsi coinvolgere dall’emotività: per il sottoscritto è da trent’anni che va avanti questo ridicolo martirio piccolo-borghese, l’eterno ritorno delle immissioni sul fondo altrui (così il burocratese) che promette di accompagnarmi per trent’anni e trent’anni ancora (qualora dovessi impudentemente sfidare l’aspettativa di vita nazionale).

Cos’è questa macchina infernale, questo non-luogo (ma sì) che dà l’illusione della proprietà, offrendone tuttavia solo gli oneri ed escludendo nella pratica ogni vantaggio? Sarei l’ultimo autorizzato a rispondere a tale quesito, proprio perché un senso di repulsione mi ha sempre impedito di subordinare il mio percorso intellettuale alle vicissitudini quotidiane, nel timore di degradarmi da dilettante cosmopolita a sociopatico di provincia.

Pur essendomi talvolta imbattuto (seppur involontariamente) in libroidi (e filmoidi) ambientati in questi tartari sovrapposti, non ho infatti mai ceduto alla tentazione di immedesimarmi in essi, forse anche per l’inconscia avversione a una troppo facile catarsi, che vanificherebbe tutti gli sforzi di uscire dalla gabbia (ecco il vero trompe-l’œil).

Al contrario, ho ripetutamente ignorato le potenzialità di qualsiasi trasfigurazione per rivolgermi a un livello inferiore all’arte, rappresentato dalle testimonianze di altri inquilini disperati reperite attraverso i motori di ricerca: anche se tale esercizio chiaramente si pone all’opposto di qualsiasi “purificazione”, la saggezza popolare promette un mezzo gaudio a chi è capace di condividere le proprie sventure. Nemmeno in questo, però, lo scrivente riesce a trovare conforto, poiché egli si picca piuttosto goffamente di essere un intellettuale (cioè spiega il subitaneo passaggio alla terza persona) e di conseguenza si arroga il diritto di disporre di una badia che non rappresenti solamente una mangiatoia o un dormitorio.

Che colpa ne ho io, se son cresciuto col mito del genio romantico nell’era democratica? Non è superbia, né arroganza, ma un riflesso condizionato della mia educazione (comune a molti della generazione a cui appartengo), al quale si è unito un precoce temperamento melanconico, proveniente, è quasi certo, da quel sangue «delle stragi e delle ibridazioni lontane, tra ligure e gallico e longobardo e minchione» di cui parlava il Gadda.

È grazie a tale disposizione che, per portare un esempio patetico (in senso etimologico), se nel primo viaggio pre-adolescenziale a Firenze svenni scorgendo da lontano Santa Maria del Fiore di notte, in tempi più recenti quello smarrimento si è trasferito alla contemplazione dello studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio, il “guardaroba di cose rare et pretiose” che di buon grado cambierei con il bilocale neoclassico di 2001: Odissea nello spazio qualora dovessi scegliere un luogo in cui trascorrere l’eterno ciclo delle rinascite.

Questo è un sintomo evidente del passaggio da bestione poetico a creatura filosofica: non sembri casuale il riferimento al Vico, l’unico cronachista delle proprie sventure che, se non fosse stato per il poco entusiasmante epilogo autobiografico, avrebbe quasi potuto rinfrancarmi. Riuscite a immaginare quale corso avrebbe preso l’intera filosofia europea se gli anni migliori del Nostro non fossero stati angustiati dal noto bugigattolo? Sarebbe disdicevole speculare oltre, non perché non sia bello fantasticare, ma perché non vale addossare sul condominio le colpe dei suoi precursori (ogni epoca ha le sue croci).

In ogni caso se al Napoletano gli avversari affibbiarono il titolo di “Mastro Tisicuzzo”, a me si parva licet l’angusta dimora pur avendomi evitato l’etisia, mi ha lasciato in eredità diverse nevrastenie che vanno dai disturbi dell’umore, dell’attenzione e del sonno all’iperemotività, dagli sbalzi d’umore fino alla classica cefalea (Mastro Nevroticuzzo in effetti mi si addice).

Forse ora è più chiaro il perché desidero parlare del condominio in stile ultracrepidario: non vedo motivi validi per anteporre lo studio dell’allitterazione a vocale interposta variabile in Lucrezio, o del ciclo riproduttivo annuale del colibrì nella foresta pluviale tropicale, alla catalogazione ossessiva di “testimonianze illustri” volta al rinvenimento del Satana dell’architettura, l’omicida sin dal principio? È un compito svilente ma, lo confesso, talvolta ho persino provato ad adempierlo: smascherare le origini violente del condominio come un Girard suburbano, che impresa sarebbe!

Le choses cachées d’altronde si possono rintracciare ovunque, da una pagina del poligrafo Anton Francesco Doni (1513–1574) che potrei riprendere parola per parola [*] per una tanto aleatoria quanto inopportuna autobiografia, agli unici racconti “sensati” di Daniil Charms (1905–1942), quelli in cui il russo stigmatizza la squallida assurdità dei kommunal’nye kvartiry, gli appartamenti in coabitazione assegnati in proporzione al numero dei componenti del nucleo famigliare.

Pare in effetti che l’anima russa abbia messo un particolare sadismo nel stipare i propri figli in scatole di cemento: dopo le demolizioni staliniane, così affini al Plan Voisin del primo Le Corbusier (ci torneremo), che fecero piazza pulita di edifici storici (specialmente ecclesiastici) per sacrificare la vita al socialismo reale, arrivarono le khruscioviki, le case prefabbricate appoggiate una sull’altra con le gru.

Si avrebbe gioco facile nell’addossare tutte le responsabilità allo spirito dei tempi, spostando l’attenzione sulle analoghe devastazioni occorse nel “blocco occidentale”; bisogna invece rilevare come gli americani, attraverso la loro arte regale, il cinema, abbiano messo un impegno particolare nel ritrarre il condominio non come simbolo della prosperità e dello sviluppo, ma come regno della microcriminalità e habitat naturale di «whores, skunk pussies, buggers, queens, fairies, dopers, junkies, sick, venal» (per citare la tassonomia di Travis Bickle in Taxi Driver). I condos, nella concezione hollywoodiana, sono res nullius in cui non vige alcuna legge umana (e forse nemmeno divina, considerando il sostrato calvinista che regge tale convinzione).

Sembra peraltro che un sentimento simile accomuni gli sceneggiatori action thriller e gli storici dell’architettura, che liquidano sempre la questione “condominio” in un paio di pagine. Alla fine, a chi interessano i due milioni di italiani che ogni anno denunciano il prossimo per le fatidiche “immissioni sul fondo altrui” a cui abbiamo accennato? Appartengono forse a una razza inferiore incapace di adattarsi a una parodia della già di per sé comica utopia fourieriana?

Eppure, ogni qualvolta si verifica un attentato terroristico in Europa, regolarmente gli opinionisti versano calde lacrime sulla condizione abitativa degli assassini, angustiati dal tenebroso scenario delle banlieue. Evidentemente non c’è verso di ottenere un po’ di attenzione  a meno che uno non vada in giro a sparacchiare per Parigi.

Anche l’ONU, così solerte quando si tratta di difendere certi “diritti”, sulla questione abitativa si limita a propinare housing statistics e a classificare sotto la dicitura First World Problems qualsiasi cosa avvenga al di fuori dell’Africa. Sarebbe invece necessaria una definizione più esplicita dell’adequate housing: qual è il limite che i “più fortunati” possono sopportare prima di imbestialirsi definitivamente?

Sono pochi gli architetti interessati alle sorti domiciliari degli umili di manzoniana memoria. Uno su tutti è il greco Nikos Salingaros, il quale afferma che «la buona architettura è una qualunque struttura, anche modesta, che genera uno stato mentale positivo» e che «la Civitas Diaboli, definita da Le Corbusier e da altri “eroi” dell’architettura del ventesimo secolo, è stata costruita nel dopoguerra in molte parti del mondo […] [distruggendo] la Civitas Dei [e] rimpiazzando gli antichi vicinati con rettangoli di cemento, acciaio, e vetro» (N. Salingaros, Antiarchitettura e demolizione. La fine dell’architettura modernista, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2005, p. 184, 192).

L’unica obiezione che posso muovere a Salingaros, proprio nelle vesti di “inquilino” (una condizione ormai quasi ontologica), è al modo forse un po’ astratto con cui affronta i problemi di noi poverelli (ma non parleremmo così se non lo percepissimo come alleato). In primo luogo, mi sembra che da parte sua ci sia troppa indulgenza nei confronti del naturale, un concetto sul quale si imperniano formule come resilienzabiofiliasostenibilità ecc… In fondo le concezioni del “naturale” cambiano come cambiano le mode (pensiamo alla Natura dei romantici totalmente antitetica a qualsiasi resilienza) ed esistono pure apologie “biologiche” per cose che in genere risultano poco simpatiche, come il capitalismo (la competizione, la sopravvivenza del più adatto…) o la peste (più naturale di così si muore). Anche di un condominio potremmo quindi elogiare la “naturalezza”, magari seguendo la lezione del solito Le Corbusier: «L’animal humain est comme l’abeille, un constructeur de cellules géométriques».

È un bene, in ogni caso, che questi controversi paralleli tra architettura e biologia vengano risolti da Salingaros sempre da prospettiva affine all’umanesimo cristiano. L’equivoco può infatti nascere quando parole come “gerarchia”, “integrazione” o “sistema coerente” non vengono ancorate a esempi concreti: come si sarà capito, a me preme soprattutto che nessuno possa dare una verniciata di “naturalità” ai nostri falansteri.

Non ci vergogniamo di ammettere che se una qualsiasi avanguardia potesse salvarci dalla coabitazione, accoglieremmo l’innaturalezza a braccia aperte. Vivendo in condominio purtroppo ci si incattivisce, si diventa paranoici e sospettosi. E all’occorrenza anche malthusiani e lombrosiani, poiché a un certo punto viene spontaneo trasferire la brutalità della struttura alle persone che la abitano (tutto sommato noi si vive in periferia, mica in una banlieue). Spesso diventa irrefrenabile la tentazione di invocare un diluvio universale almeno fino al terzo piano (questa discesa verso la ferinità è ben rappresentata dal celebre romanzo Condominium di J. G. Ballard).

Chi è stato a farci diventare così gretti e mediocri? Sei stato tu, Gropius? Tu che sostenevi al Congrès Internationaux d’Architecture Moderne del 1929 che «il problema dell’alloggio minimo è quello di stabilire il minimo elementare di spazio, aria, luce e calore necessari all’uomo  per essere in grado di sviluppare completamente le proprie funzioni vitali senza restrizioni dovute all’alloggio, cioè un modus vivendi minimo anziché un modus non moriendi» (W. Gropius, Architettura integrata, Mondadori, Milano, 1959, p. 126). Ma che significa? Cosa sarebbero questi standard minimi abitativi a cui bisogna sottomettersi?

Oppure sei stato tu, Le Corbusier, il convitato di pietra il cui nome non siamo stati in grado di tacere? Ora è venuto il momento di parlarne; vorrei però prenderla un po’ larga. Secondo Jung, essendo un provinciale, dovrei essere anche nominalista, cioè un brutto ceffo la cui conoscenza è determinata dagli oggetti sensibili e dal sentimento individualistico; al contrario per le qualità ematiche di cui ho elencato più sopra le proprietà con l’ausilio del Gadda, ho sempre sviluppato una passione per gli Assoluti, dunque anche per le Case del Logos Eterno o per la Adam’s House in Paradise.

Entrando in una chiesa, qualsiasi chiesa (anche quella di una archistar) percepisco immediatamente l’abbraccio del Padre celeste proprio per l’assenza di coinquilini tra me e il cielo. Finora non mi è giunta notizia di cattedrali a più piani e se qualcuno ha pensato a farle, francamente preferirei non saperlo. Perciò tendo a condonare a Le Corbusier molti dei suoi peccati solo per la cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp. Per certi versi quest’opera è anche un riscatto dalle “unità abitative” anteguerra: le aperture irregolari sulla parete sinistra mi hanno sempre dato l’idea di una parodia (involontaria?) della tentazione di costruire chiese a forma di condomini, nonché una risposta ante litteram allo slogan sessantottardo “Più case – Meno chiese”.

Se persino in una chiesa progettata da Le Corbusier è ancora possibile non sottostare alle false gerarchie degli uomini, quelli che “ti mangiano in testa”, ma accettare il dolce giogo delle gerarchie celesti, c’è ancora una speranza per l’umanità. Del resto non è colpa di Le Corbusier se gli americani hanno deciso di costruire un rental building di quindici piani accanto alla Cattedrale di Saint John the Divine di New York.

(immagine da “Curbed NY”)

Mi fa piacere portare come esempio le parole di un tradizionalista quale Carlo Fabrizio Carli, che nel suo pamphlet Architettura e tradizione ebbe un occhio di riguardo per quelli che all’epoca si chiamavano ancora proletari: «Ai Corviale e agli Spinaceto di grande o piccola taglia, corrisponde, tenace e insopprimibile seppure magari inconfessata, l’aspirazione per la privacy della villetta unifamiliare, per la tutela della sfera individualistica della casa» [**].

Di fronte alla brutalità di tale immagine, è ancora possibile sostenere che l’imperialismo condominiale sia solo un problema dei poveracci? Penso di no. Certo è intrigante che a prendersi a cuore la questione siano soprattutto intellettuali di “destra”, cioè quelli che avrebbero tutte le ragioni per godersi da lontano il sublime dinamico delle classi inferiori percosse e umiliate da mobili spostati, odori molesti, lavatrici scoppiettanti, ragazzini podisti, cani idrofobi, gare di calzature femminili ecc…

Ecco l’ultimo punctum dolens, la cosiddetta “edilizia residenziale pubblica”. Sembra che la composizione etnica e sociale delle case popolari attuali preconizzi una tendenza che prima o poi coinvolgerà anche gli stabili detti signorili: l’esodo degli italiani (ridotti ad aborigeni) dall’hic sunt leones alle villette a schiera. Non parliamo solamente di chi ha le possibilità economiche per permetterselo, poiché è ormai un dato di fatto che nelle graduatorie per l’assegnazione degli appartamenti, edificati con i soldi degli indigeni, i primi posti siano sempre occupati da cognomi esotici (sia consentita la stilettata populista da uno che non appartiene a nessuna “razza padrona”).

Vorrei però concludere con una nota positiva: ho notato una singolare affinità tra la Carta per la ricostruzione della città europea di Léon Krier e la proposta di Kilian Kleinschmidt di istituire “campi profughi permanenti” in Europa ispirati a una architettura umanitaria e sostenibile (Refugee camps are the “cities of tomorrow”, “Dezeen”, 23 novembre 2015).

Kleinschmidt, ex commissario delle Nazioni Unite che ha lasciato l’incarico dopo venticinque anni in polemica con la gestione fallimentare dell’emergenza migratoria, propone di considerare i campi dei rifugiati non più come temporary places, ma come le “città del futuro”, che andranno costruite in quelle parti della Germania Est, dell’Italia e della Spagna desertificate dall’urbanizzazione. Anche se la mentalità da funzionario (per giunta tedesco) lo porta a esprimersi con toni a tratti ributtanti, come quando valuta i vantaggi soprattutto da un punto di vista quantitativo (esaltandosi per il big economic boost di cui potrà approfittare l’industria tedesca), bisogna ammettere nella sua grossezza egli non trascura il lato umano della vicenda, proponendo, bontà sua, per ogni famiglia di rifugiati una fontana, una gabbietta per uccelli, una pianta e un tavolino per bere il tè accanto alla fontana.

Se questa Europa fosse più coraggiosa (ma il coraggio uno non se lo può dare, soprattutto se non esiste nemmeno!), coglierebbe l’occasione per coniugare un’utopia da burocrate con le proposte di Krier e realizzare perlomeno qualche punto del suo programma di ricostruzione. Una città dove l’etnia, la demografia o l’indole personale non vengano più presi a pretesto per piccole guerre civili.

È questo solo un sogno? Non viviamo forse in un’epoca sempre pronta a nutrire nuove sensibilità e a scoprire inediti “diritti umani” in quello che fino a un attimo prima parevano soltanto pretese assurde? E perché, infine, non sfruttare il genius saeculi almeno per una volta non a favore di qualche minoranza (perlopiù immaginaria), ma per la silent majority che non ne può più?

Note

[*] «Io ho la più traditora stanza (se pur la si può chiamar così) che sia in tutta questa terra, la più cattiva compagnia, e patisco la maggior incomodità del mondo. Per consolazione del dormire: una soda materassa, un buono e ben fatto letto duro, guancial voto, lenzuola grosse e coperta azzurra a uso di spedale. Di notte mi tastano, a uso di medico crudele, il polso e mi salassano un esercito di cimicioni larghi come mozzanighi et una turba di grosse pulci. Sopra il capo, in una soffitta antica, penso che vi faccian collegio i topi, e concistoro i ragnateli di sotto. È una via dove passa tutta notte continuamente di questi sciagurati perdi-giornata, che van cantando strambotti a l’arrabbiata e certi madrigalini amorosi. Senza quel Prete Janni, ch’io v’ho detto, che mi sta a canto tramezzato da un muro d’asse; il quale, avendo il canchero addosso, combatte gagliardamente ognora con pillole, impiastri, fregagioni, coppette, cerotti, rottori, piastregli, taste et argomenti, grida con gran forza e caca con grandissima pena. Sta sempre serrato di giorno il suo Tabernacolo, che io giuro a Dios, che non è sepoltura corrotta, quando la s’ apre, che sia sì puzzolente. Da l’altra banda ho una vecchia e un sartore, i quali due terzi della notte, tra il romor delle cesoie e il tossir della sdentata, mi passan un sollazzo di quel più traditor si trovi al mondo. Non è sì tosto la mattina l’alba, che per un canale puzzolente, fetido e gaglioffo, compariscon le barche, piatte e gondole, gridando e raghiando con voci scommesse e sgangherate a gara l’ uno dell’ altro : chi acqua d brenta, chi cipolle et agli freschi e poponi marci uva fradicia, pesce stantìo e fascine verdi, da far impazzare ogni savio cervello, rintronare ogni capo saldo e straccare ogni buon intelletto. Questi son, padron mio, i gentiluomini e le grandissime consolazioni che io ricevo. In questa camera si gusta l’inferno, qua dentro si prova il purgatorio e si fa penitenza di tutti i suoi, di colpa e senza colpa, peccati».

[**] C.F. Carli chiama in causa persino lo storico dell’architettura Leonardo Benevolo (con una citazione da un intervento al “Corriere della Sera” del 10 luglio 1978): «[Sarebbe utile] cambiare il piano dell’edilizia economica e popolare, rinunciando ai quartieri intensivi e prevedendo invece nuovi insediamenti formati prevalentemente di case unifamiliari isolate o associate a schiera, per attrarre tempestivamente gli stessi utenti e gli stessi piccoli imprenditori attualmente al lavoro nelle zone abusive» (cfr. C. F. Carli, Architettura e tradizione, Settimo Sigillo, Brescia, 1982, pp. 33-34).

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