Treviso ricorda i brutali bombardamenti angloamericani del Venerdì Santo

Dopo 79 anni, il Venerdì Santo del 2023 a Treviso coinciderà per la seconda volta (la prima fu nel 1950) con quello tragico del 1944, quando il 7 aprile le bombe gli Alleati rasero al suolo la città provocando migliaia di morti. Come ogni anno l’Amministrazione comunale provvederà a organizzare iniziative e manifestazioni; tuttavia, in virtù della coincidenza, non è da sottovalutare la particolare attenzione che la Curia ha prestato a essa, sia con la celebrazione eucaristica mercoledì 5 aprile presieduta dal vescovo Michele Tomasi in ricordo dei bambini uccisi, sia con la processione di oggi delle ore 21.

È importante serbare, anche da una prospettiva di fede, memoria della scelta deliberata degli americani di colpire la città in un giorno così importante per la cristianità, addirittura con un piano intitolato proprio “Venerdì Santo”, facente parte della più ampia operazione Strangle (“strangolamento”) atta a interrompere il flusso di rifornimento dalla Germania al fronte.

Gli attacchi “di precisione” si rivelarono una mattanza, in un’area di scarso interesse strategico (tanto che si ipotizzò addirittura una -improbabile- confusione dei piloti alleati fra Treviso e Tarvisio): piuttosto che danneggiare il nodo ferroviario, le bombe rasero al suolo interi quartieri e opere di incalcolabile interesse storico e artistico. Per non dire dei circa 1500 trevigiani spazzati via dai “gangster dell’aria”.

Il settimanale della Diocesi di Treviso ha pubblicato un ricordo di uno dei superstiti di quel 7 aprile 1944, appena tornato dalle funzioni del Venerdì Santo (che all’epoca si tenevano al mattino):

«Suonò l’allarme, e tutti ci dicemmo: “Andiamo via!”. Mia mamma non voleva, perché aveva appena preparato la zuppa di pesce. Io e mia sorella abbiamo insistito. I fratelli più grandi salirono in terrazza per vedere la contraerea, con una cassetta in testa, e poi ci raggiunsero. Abitavamo in piazza San Vito, all’ombra del campanon, dove mio papà aveva un rivendita di formaggio e andammo in uno dei rifugi più vicini, sotto le mura. […] Quando siamo usciti, vedemmo tra la polvere cumuli di rovine. Una casa, davanti al Municipio, era crollata, e dovemmo fare il giro per i Buranelli. Vedemmo anche il Palazzo dei Trecento che era crollato. La nostra casa, invece, era rimasta in piedi, anche se era restata senza finestre, e pure la zuppa di pesce si era salvata. […] Quel giorno morirono numerosi miei amici e conoscenti, noi otto in famiglia restammo tutti vivi».

Il Gazzettino pubblica invece la testimonianza di Bertilla Casarin (classe 1934), salvatasi perché la sua scuola, bombardata, era chiusa per le vacanze pasquali. Una testimonianza per certi versi simile a quella, risalente a qualche anno fa, del signor Giorgio Zanetti (classe 1937):

«A mezzogiorno avevo già pranzato, per modo di dire, perché eravamo tutti in dieta forzata di mantenimento e stavo giocando con la mia cagna Lilli, un pastore tedesco, molto bella, alta, fiera e anch’essa in perfetta linea […]. Verso le ore 13 stavo sulla strada di via S. Bona Vecchia quando suonò la sirena d’allarme, alla quale ero abituato, ma faceva sempre una certa impressione; vidi in lontananza mio zio Sandro in bicicletta che correva velocemente verso casa e alla mia domanda dove fosse stato, mi rispose gridando “dal barbiere e adesso svelto e fila a casa”. Rientrai di corsa e, non vedendomi, mia madre era già preoccupata e mia nonna ancor di più, perché molto spesso i loro richiami cadevano nel vuoto, intento com’ero nei miei frequenti giri per i campi con la Lilli, sempre con la fionda in mano a caccia di insetti, lucertole e a volte qualche uccellino che poi, nel limite del possibile, salvavo e mettevo in gabbia. Vi fu un passaggio di aerei da caccia e subito si sentirono in azione i cannoni antiaerei e contemporaneamente i sordi rumori dei bombardieri, o fortezze volanti come venivano chiamati, in avvicinamento; rumori sordi, cadenzati, monotoni, cattivi che mi rimasero impressi nella memoria per molti anni con sempre uno sgradito ricordo, anche perché ci passavano sopra le teste quasi tutti i giorni in alta quota e dalla rotta sapevamo dove erano diretti e quando qualcuno diceva “tranquilli vanno in Germania” mia madre impallidiva visibilmente.
All’improvviso cominciò il bombardamento con un fragore impressionante; due signorine si erano sedute lungo un filare di viti sotto un grosso gelso, tutte raggomitolate emettendo forti lamenti di paura. Mia nonna mi mandò a chiamarle perché si accomodassero in casa e quando apersi la porta fui investito da un violento flusso d’aria, loro mi seguirono ringraziando e si appoggiarono al muro della cucina.
Il martellamento si faceva sempre più forte e, a un iniziale momento di sgomento e sbigottimento, seguirono attimi di vera paura. Ci mettemmo sotto gli architravi dei muri maestri perché dicevano fosse il posto più sicuro; mia madre pregava, mia nonna piangeva, mio zio, che occasionalmente e di nascosto venuto a Treviso, imprecava violentemente e anche la Lilli era inquieta, guaiva lamentosamente e si spostava di continuo e dopo ripetuti richiami venne da me e non la lasciai più stringendola forte.
Tanto fragore e poi il silenzio, quasi irreale che ci spinse tutti come automi verso la porta; un acre odore di fumo ci invase e una nebbia fitta di polvere aveva completamente oscurato il cielo. Il mio sguardo si posò subito sulla gabbietta del mio lucherino appesa alla vecchia palma da dattero; il povero animaletto giaceva morto per lo spostamento d’aria e mi fermai a guardarlo quasi piangendo, ripensando a quando pochi giorni prima lo avevo preso col vischio, ripulito e alimentato con piccole spighe che ogni mattina andavo a raccogliere appositamente nei campi.
La signora Barcone che abitava sopra di noi chiese a mia madre, che diede uno stanco cenno di consenso, se poteva portarmi via, mi prese per mano e ci incamminammo verso la città; già all’inizio di via Luzzatti fui sconvolto nel vedere una quantità di gente che si spostava avanti e indietro freneticamente, i pali della luce erano pendenti sulla strada mezzi divelti e tenuti su soltanto dai fili specialmente davanti a un magazzino che vendeva legna e carbone, dove erano cadute due bombe che avevano anche preso una villetta prima della Tessitura Castiglioni e Frescura.
[…] Non c’era tempo per fermarsi e sempre in affanno verso Piazza dei Signori col Palazzo dei Trecento sfasciato e una grande trave che era uscita e si era conficcata in Piazza Martiri tra un mucchio di detriti; si vedeva colpita La Standa il palazzo che fu poi Sede della Banca Cattolica e poi scavalcando macerie verso l’Albergo Stella d’Oro, le cui vicende sono note, e qui i tedeschi non ci lasciarono passare perché stavano recuperando i loro morti.
Deviammo per vicolo Rialto e lo spettacolo continuava nella sua triste visione di distruzione dal Cinema Edison (allora Cinema Impero), al Garibaldi per passare dal Ponte della Madonnetta in via Avogari fino in piazza della Vittoria e ritornando quindi per via D’Annunzio dove era stato colpito in pieno un rifugio dove si trovavano ancora delle persone intrappolate e si udivano distintamente urla e strazianti lamenti.
Mi ricordo bene che mi venne da piangere quando vidi un bambino che avrebbe potuto avere la mia età morto e disteso sul bordo del cratere […]» (fonte: Associazione Nazionale Alpini).

Alla tragedia Giuseppe Berto ha dedicato il romanzo Il cielo è rosso (scritto nel campo di concentramento di Hereford in Texas, dove venne internato in quanto “prigioniero non cooperatore”), dal quale nel 1950 è stato tratto l’omonimo film di Claudio Gora (solo in parte girato a Treviso).

A proposito di stragi insensate degli anglo-americani, ricordo che anche il Comune e la Curia di Milano, nonostante la mediocrità generale che ormai soffoca il capoluogo lombardo, celebrano la memoria della Piccoli Martiri di Gorla, i 184 bambini che morirono sotto le bombe, assieme ai loro maestri, la direttrice membri del personale della scuola elementare Francesco Crispi il 20 ottobre 1944, un altro venerdì di passione per gli italiani.

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