Roma senza Papa: l’anatema di Guido Morselli

Il romanzo distopico di Guido Morselli Roma senza papa (scritto tra il 1966 e il 1967 ma pubblicato postumo nel 1974 da Adelphi), raffigura l’Italia come un Paese “hôtelizzato” (sic), ridotto a mantenersi con l’unica risorsa del turismo (anche sessuale); più che una profezia, la descrizione vale più come ovvia deduzione dei risultati a cui certe suggestioni politiche, evidentemente già circolanti all’epoca, avrebbero portato:

«Da quando l’Italia ha chiuso altiforni e officine per dedicarsi a quest’unica industria congeniale [la prostituzione], il turismo si è ingigantito e le permette un livello di vita pressoché europeo» (p. 32).

«Edificata l’Europa, gli Italiani si sentono tutti indistintamente retrocessi a “Sud” […] e tutti amaramente spregiati, incompresi, sfruttati, da “quelli là del nord”, lussemburghesi, francesi, belgi o tedeschi. La proposta, avanzata da un tedesco al Parlamento federale, di hôtelizzare definitivamente il paese, è vista come un oltraggio.
“Ci hanno detto”, lamentava [l’Onorevole] Baldassarrinucci, “che le nostre fabbriche di auto, di frigoriferi, erano relitti anti-economici di un passato autarchico. ‘Da voi, solo il sole’. Così ci hanno detto, questi yankee del Reno!”» (p. 110).

La questione è in effetti più complessa di come viene presentata da governanti e opinionisti:  non basta ripetere giulivi che “la cultura è il nostro petrolio” o che l’Italia può diventare “il villaggio turistico del mondo”. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, sarebbe utile distinguere il turismo dal Tourismo, che è qualcosa di più che dotarsi di strutture per l’accoglienza del maggior numero di visitatori possibile, ma attiene una rivoluzione politica, culturale ed economica che dovrebbe (come da etimo) riportare il Bel Paese nelle condizioni in cui serviva solo da fondale per il Grand Tour. Nel concreto, ciò significa ricacciare l’Italia indietro di secoli attraverso un processo di de-industrializzazione violenta, la cui pericolosità è ancora occultabile dietro i miti arcadici dell’ecologismo.

Tale “industria”, del resto, è più statica di quanto comunemente si lascia intendere: il grande patrimonio artistico italiano si può valorizzare finché si vuole ma, per dirla brutalmente, i monumenti non si possono spostare da un luogo all’altro. Di conseguenza, per fare del turismo l’unica e sola industria nazionale bisognerà disgregare la nazione stessa, esaltando l’autonomia regionale fino all’anarchia. Tout se tient: i microcosmi goethiani hanno storicamente la forma degli Stati preunitari, e se oggi si vuole renderli appetibili non solo per i rampolli della classe agiata internazionale (oggi anche levantina, slava e orientale), ma anche per i ceti medio-bassi, si dovrà come minimo accettare una dissoluzione della centralità del potere per via burocratica.

A livello culturale, si dovranno poi convincere gli indigeni della straordinarietà di un paesaggio di cui anch’essi devono diventare fruitori. Questo in una Italia in cui “vacanza” per decenni ha significato il ritorno al paesello natio, e non per un pellegrinaggio spirituale verso le origini o un viaggio poetico alle radici del proprio essere, ma soprattutto per penuria di mezzi. L’ansia dell’intrattenimento intelligente (musei, sagre, concerti folk) non potrà che imporsi con un gravoso lavorio di auto-suggestione collettiva. Anche qui, bisognerà nuovamente fare gli italiani (ovvero, dalla prospettiva risorgimentale, disfarli) e convincerli, per esempio, che quella chiesa diroccata del dolce paese è suggestiva non perché ha qualcosa a che fare con la propria infanzia, ma in quanto immobile di interesse storico, artistico e monumentale.

La novella “rivoluzione culturale” dovrà includere per forza anche quello che Morselli definisce, per bocca dei romanacci del suo romanzo, “il mignottismo delle ragazze italiane con i forestieri”. La prostituzione è stata sempre parte integrante del Grand Tour, già molto prima che il Marchese de Sade svernasse tra Firenze e Napoli, ma per venire incontro a un turismo sessuale di massa (di stampo thailandese, per intendersi) non basterà il solito “accordo tra gentiluomini”: servirà un vero e proprio piano nazionale. Il che ora come ora sembra impossibile: non tanto per la presenza della Chiesa cattolica nel Paese (lo Stato Pontificio ha per secoli ospitato una efficiente rete di lupanari gestiti direttamente dalla Curia), quanto per la famosa egemonia culturale che si estende anche alle questioni di moralità pubblica.

Suscita una certa inquietudine l’accostamento tra il romanzo di Morselli e un libretto cult di Antonio VenierIl disastro di una nazione (1999), prefato nientedimeno che da Bettino Craxi. La fine delle ambizioni industriali dell’Italia, in quanto nazione corrotta, poco competitiva e politicamente instabile, meritevole quindi di vedersi saccheggiata dei suoi gioielli dai capitali esteri, combaciano con la celebrazione del turismo, che agli occhi disincantati di Venier risulta una “attività dequalificante come poche”, poiché non crea competenze e specializzazioni, ma favorisce la precarizzazione permanente della forza-lavoro e la degradazione del livello di vita collettivo.

Di tutte le “profezie” di Roma senza papa (il pontefice a Zagarolo corteggiato da Jacqueline Kennedy, l’unificazione tra cattolici e anglicani, la canonizzazione di De Gasperi, la guerra fredda esportata su altri pianeti) purtroppo si è realizzata solo quella più banale e prevedibile.

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