In Italia, così come in Europa nonché nell’intero Occidente, il suicidio non rappresenta un’opzione politica, né impolitica o tantomeno metapolitica: per motivi culturali esso è considerato anzi espressione di impotenza, se non di viltà. Persino chi cerca di emanciparsi da qualsiasi visione religiosa o “tradizionale” è influenzato da tale concezione: penso, tanto per fare un esempio, a una recente analisi sociologica del fenomeno in Italia, Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi (cur. A. Simone, Mimesis, Milano, 2014), che riprendendo la nota suddivisione del Durkheim in suicidio egoistico (posto in esser da un soggetto poco integrato della società), altruistico (che invece indica un’integrazione estrema dell’individuo tanto da condurlo a sacrificarsi per la comunità) e anomico (provocato dal diradarsi di norme morali condivise), giunge a classificare tutte le forme di suicidio in quest’ultima categoria e di conseguenza a considerare qualsiasi azione violenta contro se stessi sub specie societatis. La curatrice stessa, Anna Simone, suggerisce addirittura di rimpiazzare la definizione di “suicido anomico” con quella di “suicidio economico” tout court: una testimonianza indiretta della forma mentis che obbliga a negare un significato politico a qualsiasi suicido suscettibile di essere considerato “individuale”.
Ecco perché il fenomeno delle “torce umane” resta essenzialmente asiatico, nonostante l’antropologa Annamaria Rivera, nel saggio -peraltro notevole- Il fuoco della rivolta (2012) sostenga che questo tipo di immolazioni siano entrate legittimamente nel novero dell’attivismo politico occidentale. È la realtà a dirci esattamente il contrario: basti pensare a casi dolorosi come quelli dell’operaio cinquantenne che si diede fuoco davanti a Montecitorio o del dottorando palermitano che si lanciò dal settimo piano dello stesso Ateneo che gli aveva negato qualsiasi futuro. Nessuno di essi ha dato adito a rivolte o insurrezioni, nemmeno simboliche o di pura testimonianza. Lo stesso discorso, da una prospettiva “realistica” (forse un po’ troppo cinica) alla fine potrebbe valere anche per Mohamed Bouazizi, l’ambulante tunisino che si diede fuoco perché stanco delle vessazioni della polizia e col suo gesto, secondo la vulgata, innescò le cosiddette “primavere arabe”: col senno di poi appare piuttosto ingenuo credere che se le particolari condizioni dello scenario internazionale dell’epoca (2011) fossero state diverse, il gesto avrebbe avrebbe attecchito sia dal punto di vista mediatico che politico.
D’altro canto, a un livello prettamente culturale, la concezione del suicidio in Nord Africa è molto più simile a quella dell’Europa meridionale che non, per dire, a quella giapponese. Dunque sembra davvero il caso di dire che Bouazizi fu, tragicamente, l’uomo giusto al posto giusto. Le stesse osservazioni, mutatis mutandis, potrebbero esser fatte riguardo alle decine di impiegati di Telecom France che dal 2008 al 2012 si tolsero la vita per le politiche di mobbing e “ridimensionamento” dell’azienda, una scia di sangue che portò alla condanna dell’amministratore delegato e due dirigenti per induzione al suicidio. In tal caso una propensione al sindacalismo combattivo tipicamente transalpina si è innestata con le sorgenti angosce dell’opinione pubblica nei confronti della “deriva cinese” a cui il mondo del lavoro nazionale stava andando incontro in concomitanza con la sua europeizzazione (en passant ricordiamo anche che la Francia è stata la prima nazione europea di tradizione cattolica a “depenalizzare” l’atto). Constatiamo perciò, con profondo sconforto, che né da un Bouazizi italiano (come del resto abbiamo visto) né da un “suicidio di massa” in stile parigino, sarebbe mai scaturito nulla di tutto ciò.
In generale da questa parte del modo vige ancora quello che Anna Simone definisce (nonostante per certi versi ne sia partecipe) “l’ordine discorsivo ideologico e banale” del Ribellatevi anziché uccidervi! Tale istanza è talmente forte che nel 2013, a fronte della “strage” di imprenditori del nordest, un sacerdote veneziano sbottò direttamente sul bollettino parrocchiale: Rubate anziché uccidervi! Appello per certi versi “sovversivo” che però non ha suscitato alcun scalpore, appunto perché fa parte quasi del nostro inconscio collettivo credere che il suicidio non abbia alcuna validità di testimonianza.
Tuttavia, c’è anche un sensus communis, giusto o sbagliato che sia, che cova in parallelo alla secolare criminalizzazione religiosa del gesto e che valuta l’uccisione di se stessi come unica opzione possibile per quanto concerne l’onore muliebre. Nonostante la polemica contro il mito di Lucrezia risalga alle radici del pensiero cristiano (nel momento in cui Sant’Agostino negò la dimensione fisica della castità per farne una virtù spirituale), è un fatto che ancora nella Berlino del 1945 i buoni padri cristiani letteralmente offrirono la corda per impiccarsi alle figlie violentate dai soldati russi. Questo forse è l’unico vero “orientalismo” che possiamo trovare in duemila anni di divieti: nel senso che la questione dell’onore diventa capitale nella concezione asiatica del suicidio.
Inutile chiamare in causa il Giappone, perché è fin troppo noto l’entusiasmo con cui il popolo del Sol Levante si dedichi alla pratica: più superficiale l’interesse, almeno a livello popolare, nei confronti del “caso cinese”. Eppure le radici culturali a giustificazione del gesto non sono meno profonde di quelle nipponiche: anche in Cina il suicidio ha un alto significato morale, sociale, politico. Esso è stato per secoli a tutti gli effetti la forma prediletta di vendetta: eroico è chi si uccide per trionfare su un nemico che non può sconfiggere direttamente; giusto è il debitore che si ammazza davanti alla soglia della casa del creditore; santa la vedova che segue l’amato coniuge anche di nascosto, lontana da sguardi indiscreti. Rappresentando un atto di accusa pubblica, in tal guisa il suicidio non sarebbe altro che una forma di faida caratterizzata dall’esercizio della violenza su se stessi piuttosto che sull’avversario. Tuttavia, anche in assenza di un sistema sociale che dia un senso alla pratica, essa rimane quasi come riflesso culturale. Pensiamo all’impressionante caso di un suicidio collettivo di immigrati cinesi avvenuto in una piantagione di zucchero cubana nel 1879: quattordici braccianti si ammazzarono contemporaneamente nella stessa sera per “vendetta” contro i padroni, pur con la consapevolezza che essi mai non avrebbero il loro gesto come tale (semmai li avrebbero subito rimpiazzati con qualcun altro).
Sarebbe opportuno accennare qui anche alle pratiche indù del sati (l’immolazione della vedova sulla pira del marito morto) e del jauhar (il sacrificio collettivo della popolazione di una città sconfitta), ma per quanto interessante, è inutile ai nostri fini (anche se va ricordati che tali usanze vennero contrastate sia dai portoghesi a Goa che dai Moghul musulmani, come in genere da ogni potenza di estrazione “monoteistica”).
Ecco perché, di fronte alla tragedia del suicidio, non basta né appellarsi a un generico attivismo (“Va’ in mezzo alla strada, tocca le femmine, va’ a rubare”) né semplicemente… ammazzarsi (e se lo dico io potete fidarvi). Servirebbe come minimo una vera e propria rivoluzione culturale per far assumere al gesto l’esatto significato (indipendentemente dal quale esso sia) che gli si vuole attribuire. Tanto varrebbe altrimenti uccidersi per amore più che per la “crisi” e aspirare almeno a un posto nella letteratura piuttosto che nella cronaca locale. Lo dico soprattutto a chi cova cattivi pensieri in una stagione politico-esistenziale particolarmente sfavorevole: che almeno si dia a tutto questo la forma di un evento epocale, di una decisione epica e apocalittica scaturita dall’unica libertà che ci hanno lasciato, quella di morire. Ma per approfondire l’argomento ci vuole tempo: dunque fate il piacere almeno voi di non ammazzarvi mentre finisco di metter giù il mio sistemino.
Volendo ampliare ulteriormente le vedute, esiste anche l’opzione: «“If you die before you die, you will not die when you die,” from the sayings of the desert fathers», che ricorda la simpatica maglietta (purtroppo in “sold-out”: https://death-to-the-world.myshopify.com/collections/shirts/products/if-you-die) su death-to-the-world (a proposito gran sito, grazie delle traduzioni).
Il suicidio può essere considerato un atto politico, se queste sono le intenzioni di chi lo compie. Ma che sortisca davvero un qualsiasi effetto è una fantasia che credo sia frutto del modo in cui si è evoluto strutturalmente il nostro cervello. Gran parte dell’evoluzione biologica dell’Homo Sapiens è avvenuta in società con un ristretto numero di componenti. O meglio: l’evoluzione stessa ha portato biologicamente l’essere umano ad avere quelle caratteristiche che favorivano la costituzione di piccole società (famigliari/tribali/comunitarie) perchè il vantaggio di sopravvivenza che ne derivava ha permesso a chi aveva questa caratteristica di sopravvivere e riprodursi. Il fatto di vivere in piccole comunità ha a sua volta influenzato l’evoluzione biologica e si sono così create strutture mentali nel nostro cervello che sono adattate a comunità famigliari/tribali di non più di 300 persone. Negli ultimi 8000 anni i mutamenti sociali ci hanno portato a società ben diverse, ma da un punto di vista biologico 8000 anni non permettono quasi nessun adattamento, è un periodo troppo piccolo. Dentro queste piccole comunità di 30-300 persone sicuramente il suicidio (o meglio: la minaccia di suicidio) poteva avere un effetto anche importante: sarebbe potuto venire a mancare un membro produttivo, un amico, un parente, qualcuno che anche per il solo fatto di essere numero contribuiva agli equilibri di potere tra due famiglie etc. Pertanto il nostro cervello ci fa credere più o meno consciamente che il suicidio possa avere un effetto sulla società che ci circonda, e dunque anche un effetto politico. Ora, tralasciando l’aspetto ovvio che – anche tale azione avesse un qualsiasi effetto il suicida non ci sarà più per goderne, nella società attuale così frammentata e così impersonale il suicidio è visto come un atto privato, e l’effetto politico ne è annullato. Certo, parenti e amici saranno soggetti alle conseguenze, ma istituzioni e società in genere no. Anzi, laddove il gesto possa scuotere un po’ le coscienze si tratta di coscienze che gia erano coerenti con quella visione politica: gli avversari di sicuro non cambieranno idea, così come i neutri/menefreghisti/individualisti che non ne saranno toccati. In fondo in una società competitiva la dipartita di un membro è un evento perfettamente integrato nei meccanismi e non certo un’eccezione.
Paolello
per noi neofascist italodisco solo “bella morte” rende proficua viva.
Mi stupisce che tu non abbia mai trattato la figura di Dominique Venner , soprattutto quanto ha scritto nel libro postumo Un samouraï d’Occident : Le Bréviaire des insoumis
https://it.wikipedia.org/wiki/Dominique_Venner