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Umberto Eco e il paradosso dell’avanguardia

L’imbarazzo provocato dalla contraddizione di dover proclamare l’immortalità di un mortale nell’istante in cui muore, mi ha sempre impedito di buttar giù necrologi improvvisati per scrittori, musicisti, registi (“artisti” in genere, insomma).
Perché se davvero avessimo a che fare con degli “immortali”, allora sarebbe consentito eccedere il nihil nisi bonum e dire finalmente qualcosa di rilevante sul de cuius: ciò sarebbe di enorme utilità soprattutto nel caso di uno come Umberto Eco, la cui eredità (culturale, o almeno morale) andrà probabilmente incontro alla medesima damnatio memoriae patita da alcuni “cadaveri eccellenti” degli ultimi anni come (per citare i primi che mi vengono in mente) Moravia, Bobbio, Cederna, Sanguineti (a meno che non si verifichi una riduzione a icona come è accaduto nei confronti di Pasolini: in tal caso però l’esposizione mediatica sulla lunga distanza non potrebbe compensare la mancanza del physique du rôle).

Ancor peggio di un oblio repentino sarebbe poi il residuo di una fama postuma dal sapore  erostratiano: Umberto Eco quale simbolo del villan rifatto, l’avanguardista che è riuscito a intrufolarsi nella torre d’avorio per non uscirne più (e soprattutto non farci entrare nessuno).

È questa una convinzione comune sia ai critici che agli adulatori: la grandezza del “professore” sta tutta nell’esser stato capace di incidere nuove storie sulla tabula rasa della contestazione fallita e dell’avanguardismo d’accatto.

Alberto Arbasino, in un “coccodrillo” retroattivo (già preparato dagli anni ’90, ma ripubblicato nel 2014 da Adelphi in Ritratti italiani), con onesta dissimulazione riconosce a Eco il merito di essersi «trovato a operare in una congiuntura storico-culturale interessante e disperata. […] Le contestazioni intorno al ’68 avevano colpito a morte la letteratura […]. [Eco] dovette sobbarcarsi la rivalutazione delle abbazie e delle cattedre, come misura urgente. […] Si indirizza da una cattedra dotta a un “target” di consumatori laureandi e laureati nell’università globale, che sanno un poco di latino e di scienze, e si tirano dietro le scuole medie e magari le famiglie. Costruisce oggetti complessi che fanno un po’ paura agli incolti» (Ritratti italiani, pp. 193-194).

Gli esegeti postumi dovranno quindi assumersi l’onere di dimostrare che Eco fu vittima e non carnefice, ovvero che non partecipò attivamente alla desertificazione della cultura italiana per innalzare una cattedrale a se stesso, ma che invece approfittò di una fortunosa “congiuntura storico-culturale” in modo opportunistico ma geniale. Finora mi sembra che i critici, seppur tra le righe, abbiano caldeggiato la prima ipotesi: è ricorrente l’immagine di un Umberto Eco che con un intenso impegno teoretico riesce a convincere tutti che la letteratura è menzogna, che bisogna sbarazzarsi della verità, che l’unica estetica possibile è quella fuzzy, che i contenuti devono dissolversi al sole della semiotica, e che poi alla fine, dopo aver rimbambolito un’intera generazione, inizia a pubblicare feuilleton a raffica.

Già nel 1990 critici, scrittori e culturame vario avevano manifestato le proprie perplessità in un libro-dossier, Effetto Eco, il quale, al di là del livore, conteneva riflessioni e spunti che la successiva produzione dell’autore avrebbe ampiamente confermato; per esempio, Ruggero Guarini nel suo contributo affermava che «Eco è l’esempio più vistoso di una tendenza generale: secondo me oggi nel mondo la gente legge non più come accadeva una volta, per divertirsi, commuoversi, emozionarsi e capire che cosa è la vita, ma soltanto per istruirsi scolasticamente. I libri di Eco assolvono egregiamente questa funzione» (Effetto Eco, cur. F Pansa – A. Vinci, Nuove Edizioni del Gallo, Roma, 1990, p. 155).

Più benevolmente, Geno Pampaloni scrisse (nel volume “Il Novecento” della Storia della letteratura italiana di Cecchi-Sapegno) che «Eco ha colto il momento giusto per liquidare gli stanchi residui ideologici che ristagnavano nella nostra letteratura, dopo avere dilagato negli anni della contestazione, e di cui egli stesso era stato partecipe».

Non è evidentemente un problema di ordine etico stabilire la “colpevolezza” di Eco, poiché, da un giudizio complessivo sulla sua opera il più obiettivo possibile, si potrebbero anche dedurre i motivi per cui la scrittura dell’autore si sia sempre dimostrata piuttosto infelice, meccanica, sciatta, in pochissimi casi realmente ispirata.
Sono forse necessità di tipo teoretico, come l’esigenza di deideologizzazione dopo gli anni formidabili del “nella misura in cui” (sui quali anche Eco ironizzò spesso) oppure la volontà di rendere letterariamente le intuizioni della semiotica (la disciplina che il professore ha sempre considerato come propria, nonostante egli si limitasse perlopiù a svolgere il ruolo di onesto divulgatore di dottrine altrui), che hanno imposto alla forma-romanzo quei dialoghi insostenibili, quelle imbarazzanti ambientazioni picaresche, «l’incontenibile gusto della battutina e dell’ammiccamento» (G. Ferroni) e la perenne mostra di erudizione?

Se così fosse, allora Eco sarebbe stato semplicemente l’uomo giusto al momento giusto: un professore simpatico e compagnone in un’Italia rimasta a corto di autori esportabili (ricordate per caso qualche scrittore degli anni ’80 che potesse restituire ai lettori forestieri una “certa idea dell’Italia”?) e in pieno declino culturale dopo la “rivoluzione culturale” sessantottina (la quale riuscì nel difficile compito di sabotare l’istituzione scolastica a tutti i livelli senza ridurre di un millimetro il divario esistente tra gli intellettuali e le masse, anzi aumentandolo in una ipostatizzazione prima ingenuamente anagrafica, e poi vergognosamente classista).

Eco quindi ha avuto sì la prontezza di riempire un vuoto, ma non l’accortezza di fermarsi, arrivando a ingurgitare tutto quel che era rimasto in piedi nella cultura italiana; perciò come scrittore, intellettuale e maestro non lascia né epigoni né eredi né discepoli. La letteratura infatti ha una sua “verità”, ed è la spietatezza con cui inganna gli aspiranti immortali: a un Eugène Sue, per esempio, oggi concede solo un lieve ascendente sul giovane Dostoevskij; ma sarà altrettanto generosa con un Umberto Eco?

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