Avrete sicuramente sentito parlare di Christmas blues, la “depressione natalizia” che farebbe impennare il tasso di suicidi: essendo il suicidio prevalentemente un fenomeno maschile, mi sovviene che l’uomo più triste è quello senza figli; come osservava nel dicembre di quattro anni fa (ai tempi del Gran Divieto di festeggiamenti) Mindtapes, “Per tutti quelli che non hanno figli piccoli, questo natale sarà meno infelice degli altri perché sarà meno evidente il senso di morte e desolazione crescenti tipico delle festività nelle famiglie infeconde“.
Per tutti quelli che non hanno figli piccoli, questo natale sarà meno infelice degli altri perché sarà meno evidente il senso di morte e desolazione crescenti tipico delle festività nelle famiglie infeconde
— Mindtapəs (@mindtapes) December 19, 2020
Non è, come dicevo, solo un problema di famiglie infeconde, perché il fatto di non avere figli mi pare pesi soprattutto agli uomini: le donne aborriscono naturaliter la maternità e il famigerato “istinto” è solo una creazione del patriarcato allo scopo di impedire alla degenerazione muliebre di mettere a repentaglio la sopravvivenza della specie.
Quando, del resto, parlo di non avere figli faccio riferimento a un senso ulteriore rispetto a quello meramente biologico: allo stato attuale, un uomo italiano (europeo, occidentale, etc.) non ha figli anche quando una femmina si degna di farsi incintare previa pianificazione cinquantennale di prospettive professionali ed esistenziali, oltre che di un’annientamento totale dell’ingravidatore.
Ecco perché ora, recandomi in qualche libreria traboccante di volumetti per i più piccini, l’unica sensazione che provo è un blando stupore di fronte all’opportunità di tale iniziative commerciali, considerando il target principale che frequenta certe attività (perlopiù “rami spogli” tagliati fuori dal mercato riproduttivo). Magari tempo fa mi si sarebbe stretto il cuore al pensiero di non avere un figlio a cui leggerli, ma più passano gli anni e più mi rendo conto che diventare biologicamente padre non risolverebbe alcuna “questione”, né personale né collettiva.
Spesso ricevo dei commenti (da uomini che si spacciano per donne, o viceversa) del calibro di “Tu cerchi una mammina che ti faccia i mestieri e ti dia il bacino della buonanotte, non una D O N N A“ (con la d maiuscola, anzi con tutte le lettere a caratteri cubitali).
Facile psicanalizzare il prossimo per luoghi comuni, ma sinceramente questa accusa non mi tange nemmeno un po’ per il semplice motivo che non ho mai avuto una madre affettuosa o comprensiva, e non sono mai stato un “cocco di mamma”.
La rappresentazione plastica di tale scenario (senza indulgere in particolare autobiografici che non interessano a nessuno) era proprio il giorno di Natale, nel quale la matriarca sclerava perché non aveva ricevuto da mio padre (e poi da me) il regalo che voleva (nulla che sia mai esistito nemmeno a livello di un borgesiano regno della fantasia), e la festività perciò si trasformava in una sequela di urla e pacchi gettati dalla finestra, fin quando non giungeva qualche zio/zia salvifici a portare una fiammella temporanea in quelle tenebre di pianto e stridor di denti.
In casa mia, governava mia madre: farsi una doccia con lei presente nell’abitazione era come firmare la propria condanna a morte per le gocce lasciate sul pavimento, così come riempire il cesto della roba sporca in maniera sbagliata (posto che aveva anche la serva, di solito qualche sottosviluppata dal Sud del Sud pronta a raggirarla in qualsiasi modo possibile), usare un piatto o un bicchiere non necessario, nonché fondamentalmente esistere (mi ricordo una sua “barra” memorabile: La tua stanza deve essere ordinata come se tu fossi morto).
Mio padre era inesistente, una figura impalpabile che temeva la matriarca più di me. In effetti, più che l’amore di una madre, ho sempre cercato l’odio di un padre, che almeno esprimesse quella realtà raccontata incessantemente da film e romanzi americani: la bestia alcolizzata che brutalizza l’intera famiglia e la poverina tutta piena di lividi che esprime il proprio dolore nell’arte gastronomica e nella pulizia perfetta di stoviglie e sanitari.
Il mio vecchio, proprio non ce la faceva. Era consapevole del problema, ma era un carattere alla Raimondo Vianello privo però di quella virilità amorale del mattatore, del puttaniere, del viveur. Non aveva nemmeno amici perché la consorte glieli aveva fatti mettere tutti da parte: persino i mariti delle sue “amiche”, che diventavano accidentali compagni di viaggio, potevano trasformarsi da un momento all’altro in un casus belli, perché lei aveva litigato con l'”amica” suddetta o perché provava un’invidia profonda per quel patrimonio spirituale dell’umanità che è la fratellanza maschile (non a caso presa di mira dalla propaganda omosessuale, oppure ridotta a imbarazzante bromance).
Il fatto è che il mi babbo non era nemmeno femminista, e questo forse ha salvato quel minimo di virilità in famiglia. Ricordo, per esempio, quando mia madre lo aveva ammonito di non parlare col marito di tale sua “amica” perché l’aveva appena “picchiata” (probabilmente sbuffandole sul volto o urtandola involontariamente col gomito). Mio padre allora, giusto per farla incazzare, andò incontro al “potenziale femminicida” allungandogli la mano e dandogli pacche sulle spalle, trattandolo alla stregua di un Ministro della Violenza di Genere. Una scena stile Casa Vianello, appunto, ma che celava retroscena da incubo una volta spenti i metaforici riflettori.
Se tale training mi fosse almeno servito a rendermi più sopportabili le donne, avrei comunque trovato modo di trarre qualche insegnamento positivo dall’esser cresciuto sotto il segno della Grande Madre: al contrario, ho scoperto che le femmine potenzialmente sono tutte così e l’unico modo per tenerle a bada è quello di diventare come il “padre dei film americani” di cui sopra. Che è un altro modo di annullarsi, specialmente in un contesto in cui il “patriarca” è naturaliter un criminale e in ogni caso, pur di instaurare un ordine reso impossibile dal sistema, si riduce pure in tal guisa a una figura altrettanto impalpabile nei confronti della prole, che forse (ma non è detto) comincerà ad apprezzarlo solo dopo anni o decenni dalla sua scomparsa.
Mi sono spesso interrogato sulla feroce dicotomia tra padre e madre all’interno di una famiglia: si può dare la colpa al contesto sociale, all’etnia, alla cultura, alla politica, all’Italia, all’economia etc., ma penso che in fondo la causa principale risieda nel come sono fatte le donne. Facile ridurre tale conclusione a un alibi o a una scappatoia, ma non è che le altre spiegazioni siano più verosimili, soprattutto per chi giunge a esse dopo aver provato a rispondersi in qualsiasi altro modo alla domanda.
D’altro canto, a mio parere è inutile illudersi che nel contesto attuale (dalla rivoluzione “femminista” in poi, che dura ormai da qualche secolo), un padre possa esprimere la propria virilità in maniera non “disfunzionale“, come vorrebbe un certo tipo di propaganda: si rischia semmai una reazione di rigetto.
Intendo dire, per capirci, che il “superpapà” che gioca a calcetto con il figlio o lo porta persino a pesca o addirittura a caccia nei boschi, se non molla qualche ceffone alla madre o la tratta come una pezza da piedi, corre il pericolo di allevare una prole totalmente refrattaria ai suoi stupidi hobby da bamboccione perdigiorno.
Mi spiace fare esempi veramente banali, ma pensando alle biografie dei più grandi calciatori degli ultimi decenni, Cristiano Ronaldo e Messi, mi domando se costoro avessero avuti dei padri davvero “presenti” (specialmente il portoghese, il cui genitore era un alcolizzato pazzoide, ma anche l’argentino, che è diventato calciatore grazie alla nonna materna), intendo quel tipo di padri promossi dalla reclamistica e dalla cultura mainstream, avrebbero davvero espresso tutto il loro talento, o se magari invece si sarebbero arresi in tarda adolescenza perché soffocati da un “interesse” difficilmente non percepibile come un surrogato del vero ruolo che dovrebbe esercitare un patriarca. Lo stesso discorso è valido per Pascoli o Leopardi, ma non vorrei perdermi in esempi ancor più ridicoli.
Il fatto è che non sembra esistere una via di mezzo, che di solito è la strada maestra per vivere una vita decente: fra i tanti slogan che le femministe amano ripetere, c’è quello del Sante o Puttane. “Gne gne gne, voi maschietti cattolici mafiosi patriarcali non accettate che una donna possa essere libera, ci obbligate a essere o una madonnina angelica oppure l’ultima delle troie perché magari non siamo arrivate vergini al matrimonio”.
A me sembra esattamente il contrario: sono gli uomini a essere obbligati a essere o Santi o Puttanieri. O sei un disgraziato che passa la sera della Vigilia tra la bisca e il bordello, oppure sei la versione tridimensionale del quadretto del patrono appeso su un muro in disparte che benedice le scelte della “Santa Puttana”, elargisce prebende e offre buoni consigli sempre all’insegna del “Passata la festa, gabbato lo santo” (letteralmente).
Io odio il cinismo da operetta, quel falso anticonformismo che si esprime in triti slogan contro il “Mulino Bianco” (però gli va bene il mulino arcobaleno o mulatto). Se c’è qualcuno che sarà felice di festeggiare il Natale con la propria consorte e con i propri figli, non potrò che augurargli il meglio, con l’unico rammarico che non gli sia stata ancora consegnata una medaglia per avercela in qualche modo fatta. Alla fine il primo passo per crescere dei bravi figlioli è quello di… farli (non mi dire), ma il prezzo da pagare è un’autodistruzione del padre che non avvantaggia nessuna delle istituzioni o degli individui convolti, se non nel momento in cui si esprime tramite comportamenti antisociali e -paradossalmente- atteggiamenti “anti-famiglia”.
Ciao, sono ancora vivo, ti segnalo questo refuso:
“Non è, come dicevao, solo un problema di famiglie infeconde”