Ho letto tutto d’un fiato National Security Cinema di Matthew Alford e Tom Secker, volume appena dato alle stampe che approfondisce un tema che solo negli ultimi anni ha iniziato ad appassionare studiosi più seri dei complottisti: l’influenza dei servizi segreti americani su Hollwyood.
Liquidare l’argomento come il proverbiale “segreto di Pulcinella” è un atteggiamento che lascia il tempo che trova, poiché tutti bene o male siamo stati influenzati dalla cinematografia statunitense: tuttavia, avere finalmente le prove documentali di una vera e propria arte di regime, va al di là delle semplici paranoie personali o del “sentito dire”.
Il Pentagono e la CIA avrebbero direttamente influenzato quasi duemila produzioni, tra film e serie televisive: il volume illustra nel dettaglio le imposizioni che registi e sceneggiatori hanno dovuto accettare dal famigerato “complesso militare-industriale”, sotto il ricatto di vedersi negato qualsiasi sostegno “logistico” (indispensabile per le scene di guerra) o di venire boicottati tramite interdizioni burocratiche e pressioni sugli sponsor.
Ammetto di aver sfogliato frettolosamente l’opera con uno scopo ben preciso: trovare conferme di quanto scrisse l’unico che finora abbia portato queste tematiche in Italia, Stefano Anelli aka John Kleeves. Un personaggio che francamente faccio fatica a chiamare in causa, dato che qualcuno ricorderà il modo in cui nel 2010 passò alle cronache per aver ucciso la nipote con un colpo di balestra (e poi essersi suicidato con la stessa arma). All’epoca i giornali liquidarono la sua produzione (che comprende titoli notevoli come Sacrifici umani, Un paese pericoloso e Divi di Stato, quest’ultimo appunto dedicato al “controllo politico su Hollywood”) come “libri deliranti anti-Usa”: una definizione che, col senno di poi, in effetti potrebbe apparire legittima.
Confesso quindi di aver spulciato National Security Cinema solo per scovare tra i case studies gli stessi analizzati da Anelli/Kleeves: per esempio, pellicole come Il silenzio degli innocenti, oppure (ancora più importante, e vedremo subito il perché) Un giorno di ordinaria follia (titolo originale: Falling Down) diretto nel 1993 da Joel Schumacher e interpretato da Michael Douglas.
Sfortunatamente, a questi due titoli gli studiosi americani non hanno dedicato nemmeno una riga; in compenso nel volume trovano spazio illuminanti osservazioni su Forrest Gump (altra pericola “sospetta” per Kleeves), agli sceneggiatori del quale il Pentagono suggerì di rivedere totalmente la trama, poiché troppo “nichilistica” nei confronti dell’esperienza vietnamita. Nonostante i cambiamenti apportati alla versione iniziale non furono sufficienti a garantirsi la collaborazione governativa, il risultato finale risultò comunque pesantemente “influenzato” dal Dipartimento della Difesa: per dirne una, se nella sceneggiatura originale Forrest e Bubba fanno parte di un reparto “speciale” per soldati dalle capacità intellettive non eccelse, nel film che poi tutti hanno visto i due simpatici tontoloni combattono fianco a fianco con tutti gli altri.
La ricerca di Alford e Secker in ogni caso fornisce spunti straordinari a proposito di pellicole del calibro di Apocalyse Now (forse l’unico film bellico nella storia del cinema americano che il governo ha sin dal principio snobbato), Top Gun (il cui sequel è stato bloccato per decenni a causa del cosiddetto “scandalo Tailhook” riguardante gli stupri di massa nell’esercito: la marina militare si rifiutò di collaborare finché il clamore suscitato dall’affare non si fosse placato), Black Hawk Down, The Interview, Terminator, Robocop, i film sugli eroi della Marvel, eccetera eccetera.
È chiaro che prima o poi dovremo tornare su ognuno dei titoli appena evocati; al momento però, come detto, mi interessava soprattutto rivenire almeno uno straccio di informazione su Un giorno di ordinaria follia. I motivi di questa “ossessione” risalgono a un altro strano caso di cronaca, quello di un estremista di destra (tale Gianluca Casseri) che nel dicembre 2011 uccise due ambulanti senegalesi a Firenze. Come riportarono le gazzette, l’assassino non solo uscì di casa per compiere il delitto lasciando il dvd del film in bella vista, ma quando un edicolante tentò di fermarlo, pronunciò la stessa battuta del protagonista Michael Douglas: «Pensa bene a cosa ti conviene fare».
Devo ammettere che quando lessi la notizia, mi tornò subito alla mente l’analisi di “John Kleeves”. Voglio riportarla qui di seguito, con la raccomandazione (ce n’è sempre bisogno, visto quel che accade), di prenderla con le molle (la citazione è tratta da Divi di Stato, Settimo Sigillo, Roma, 1999, pp. 131-133):
«Il film drammatico Un giorno di ordinaria follia […] [presenta] una trama promettente: un uomo si ribella contro la società. Un’occasione per fare parecchie denunce sociali. In superficie sono presentate, infatti, ma annullate da un preciso lavorio subliminale. Prima l’uomo è stato abbandonato dalla moglie e poi ha perso il lavoro […]. Bill (Douglas) dice infatti: “Non sono io che ho perso il lavoro; è il lavoro che ha perso me”. Niente accuse ai datori di lavoro quindi. […] Nella sua marcia a piedi verso la casa della ex moglie Bill attraversa i quartieri malfamati di Los Angeles, che sono anche i quartieri più poveri. Viene mostrata un’umanità indolente, insensibile e criminale: perciò sono poveri. Sono quasi tutti immigrati di colore, tipo portoricani e asiatici, e sono loro a infastidirlo provocandone la reazione. C’è anche qualche bianco nella melma, ma sono o pazzi neonazisti come il gestore del negozio di articoli militari o drogati terminali o puri vagabondi. C’è un bianco macilento a terra con un cartello “Will work for food” (“Sono disposto a lavorare per cibo”): uno slogan pubblicitario, perché l’uomo non è evidentemente in grado di lavorare, probabilmente per gli eccessi di alcol e droga. Diverso sarebbe stato usare per la comparsata un uomo robusto e all’erta […]. Non manca l’occasione per inserire un po’ di propaganda per la politica estera: all’esoso gestore di un grocery store […], un coreano che non si è neanche preso la briga di imparare la lingua del paese che lo ha accolto, Bill rinfaccia: “Sai quanto ha speso il mio governo per la Corea?”. La tesi subliminale del film è che se ci sono problemi negli Stati Uniti, che possano portare all’esasperazione un americano peraltro esemplare come Bill […] questi sono dovuti agli immigrati. La ex moglie si chiama infatti Elizabeth Travino e di lei dice la madre di Bill: “È mezza italiana; si sa come va con quelle”.
[…] Alla fine Bill è ucciso dal poliziotto Prendergast (Duvall). Non è una fine troppo amara; è la conclusione di una sfortunata vicenda personale, dovuta a problemi psicologici. Tutti sono contenti: Pendergast ricava i giusti stimoli per continuare il lavoro, la ex moglie trae un sospiro di sollievo […] e la figlia non si accorge di nulla. […] Non ci si rattrista neanche per le vittime di Bill: alcuni delinquentelli portoricani e il poco raccomandabile gestore del negozio di articoli militari. Ci si può soffermare un attimo sulla figura di quest’ultimo: è un fanatico delle armi e del nazismo, che lui identifica con la sua cattiveria generalizzata, con l’odio verso tutto ciò che gli pare diverso e debole. Si tratta di uno stereotipo nella filmografia hollywodiana post 1953: suggerisce che la violenza che ognuno non può non notare nella società e nella politica estera americana è dovuta a soggetti del genere. Per il resto non rimane che notare come Michael non abbia la fibra del padre: Kirk Douglas non avrebbe accettato un tale film».
La persona che snocciolava tali lucidissime considerazioni è poi la stessa caduta nel “vortice”…
Tutta questa storia assomiglia alla brutta trama di una pellicola hard-boiled, per giunta neppure “riveduta e corretta” dai servizi segreti. Al di là dei “complottismi” di circostanza, credo esista un sottile legame, almeno a livello di suggestioni, tra questi diversi “giorni di follia”. Certo risulta paradossale, se non grottesco (per restare in tema di cinema), che uno come Casseri, dopo aver passato la vita a scrivere della tradizione primordiale, dell’eroismo iniziatico, dell’audacia e del coraggio della razza ariana (contributi poi cancellati dai siti che li avevano ospitati), abbia trovato come ultima giustificazione “intellettuale” un filmaccio americano senza capo né coda, dove il protagonista impazzisce, ammazza un paio di persone e poi viene ucciso.
Come sosteneva un grande protagonista del Novecento, “La cinematografia è l’arma più forte”. A volte però anche la paranoia e la stupidità non scherzano…