In occasione di una recensione per un allegato del “Corriere della Sera” del romanzo I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, dedicata all’autoproclamatosi “messia” Jacob (Jakub) Frank, il celebre Roberto Saviano espresse alcune considerazioni piuttosto inquietanti sull’intreccio fra ebraismo, anarchia, sovversione e doppiezza morale, che rilette alla luce del successo ottenuto nel “denunciare la mafia” dallo scrittore conducono a interpretazioni piuttosto controverse di tutto il suo percorso di denuncia, come si evince da affermazioni come questa:
«Il mondo, se cerco di salvarlo, non mi renderà felice; se, al contrario, accolgo la sua dannazione, o se addirittura lo peggioro, vivrò coerentemente con la sua violenza».
Roberto Saviano ha scritto Gomorra per “portare il mondo all’abisso?”
Ho approfondito il tema in questo articolo, al quale rimando per la “questione Saviano”, i cui riferimenti al mondo dell’ebraismo allo stato attuale hanno solo suscitato qualche perplessità per delle ripetute dichiarazioni a favore di Israele (nelle quali, fra le altre cose, si proponevano arditi paragoni tra Hamas e la camorra).
Tuttavia, come è noto, l’autore partenopeo ha rivendicato in diversi luoghi un retaggio israelita ben più profondo, e in altri interventi ha più volte evocato la figura del nonno materno, che gli avrebbe “insegnato il giudaismo e la Torah” illuminandolo a quanto pare sulle figure di Sabbatai Zevi e -per l’appunto- Jacob Frank, rappresentanti delle “meravigliose follie e le bizzarrie di un mondo perseguitato da sempre”.
Al di là delle apparenze, un dato che è necessario evidenziare è che questa posizione di Saviano potrebbe essere considerata sui generis nella misura in cui egli partecipa del giudaismo in maniera -almeno all’apparenza- culturale e non religiosa, mentre da una prospettiva più ampia certe ambiguità farebbero parte da sempre dell’ebraismo italiano: semplicemente, si evita di parlarne sulla grande stampa, soprattutto nel modo in cui lo fa questo scrittore (anche, va detto, con un certo grado di narcisismo dovuto alla popolarità ottenuta).
D’altro canto, in particolare negli ultimi anni, ci sono stati momenti in cui è sembrato quasi necessario discutere di messianismo ebraico sulle pagine culturali dei più importanti giornali, nel contesto di un’attenzione -a tratti eccessiva- verso l’importanza della cultura semita nella formazione dell’anima italiana, europea e occidentale. Un “evento” da tale prospettiva significativo, del quale mi ha parlato un lettore, è stata la presentazione del volume Un ebreo resta sempre un ebreo di Laura Quercioli Mincer all’Istituto Polacco di Roma con il patrocinio del Comune capitolino, alla quale si aggregò il gotha dell’informazione nazionale.
Nel web si possono rintracciare testimonianze della partecipazione a quell’happening, o comunque dell’incredibile interesse che suscitò una ricerca di ambito prettamente accademico (ormai introvabile) nella prospettiva di trasformare Jacob Frank, e per riflesso Sabbatai Zevi, in un nuovo protagonista della cultura popolare italiana.
Per esempio, sulle pagine supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore” l’ebraista di fama internazionale Giulio Busi, il 18 maggio 2008, riassumendo perfettamente il contenuto dei saggi del volume (di autori del calibro altrettanto internazionale quali Jan Doktòr, Irena Grudzinska-Gross, Joanna B. Michlic e la stessa Quercioli Mincer), osservava che:
«Figlio di un’agiata famiglia di mercanti della Podolia, Jacob Frank nel 1757 si convertì anch’egli all’Islam [scil. come Sabbatai Zevi], ma non era uomo da accontentarsi di due sole religioni, e così passò ancora una volta il guado della fede e si fece cristiano, nella desolazione delle comunità ebraiche. Assieme a lui, vennero battezzati ben duemila proseliti, in quella che fu probabilmente la più spettacolare conversione di massa dell’Europa moderna. I guai, per Frank, cominciarono però quasi subito. Furono i suoi stessi sostenitori, infatti, a denunciarlo, spifferando che il suo cristianesimo era solo posticcio, e che in privato Jacob si faceva venerare niente meno che come un’incarnazione di Dio. Il falso neofita fu arrestato e condannato a essere rinchiuso nel monastero di Częstochowa.
[…] Quando Frank mori, nel 1791, molti dei suoi accoliti si erano ormai integrati nella nobiltà polacca, sebbene continuassero, nascostamente, a seguire una loro forma eccentrica di giudaismo. Come mette bene in luce il volume a più mani, curato da Laura Quercioli Mincer, le metamorfosi del frankismo segnarono profondamente la società polacca, e suscitarono reazioni contrastanti: basti ricordare, da una parte, il filosemita Adam Mickiewicz, il massimo poeta nazionale – la cui moglie proveniva da una famiglia frankista – e, dall’altra, gli antisemiti di ieri e oggi, legati allo stereotipo del falso convertito ebreo. Tra doppiezze, inganni, mezze verità e sincere menzogne, il frankismo si è guadagnato il molo di oscuro antesignano della nostra confusa modernità».
Al contempo, una recensione per il numero dell’ultimo quadrimestre del 2007 de “La Rassegna Mensile di Israel” (patrocinata dall’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), lo scrittore Aldo Zargani (1933-2020) testimoniava una presenza viva nell’ambiente dell’ebraismo italiano delle tematiche sollevate da un “ilico” come Roberto Saviano. Quest’ultimo infatti, come si è appena visto, sosteneva che la “follia mistica” che attraversò le comunità ebraiche europee fu una reazione a un’altra follia, la “follia cieca del pregiudizio antisemita”, così come Zargani, in maniera intellettualmente più consapevole, rievoca i falliti tentativi da parte degli ebrei di “schierarsi dalla parte della mente e della ragione”, sia tramite la “simbiosi con la civiltà tedesca” (Moses Mendelssohn e la Haskalah), sia con la “nazionalizzazione assimilatoria” (erede della Rivoluzione Francese) che con “l’assimilazione socialista”, processo che poi secondo l’Autore sarebbe culminato nel sionismo.
Ora, è indispensabile osservare che sempre per Zargani tutti questi risvolto sono stati generati dal “più esecrabile e maledetto dei tentativi” di “trasformare il codice morale ebraico in sistema universale filosofico” da parte di Baruch Spinoza, e proprio allo scopo di comprendere i “limiti della ragione” quando si parla di ebraismo, consiglia a ogni suo correligionario di trovare un posto nella propria casa a Un ebreo resta sempre un ebreo.
Ciò che è davvero interessante è che Zargani biasima una presunta “ammirazione” da parte del giudaismo italiano (o, per meglio dire, di “molti vecchi ebrei italiani”) per la figura di Sabbatai Zevi, liricizzata e ditirambizzata da un capitolo del romanzo I sognatori del ghetto di Israel Zangwill (pubblicato da Lindau nel 2018 e opportunatamente propagandato dall’area grigia dei “foglianti”). Per riprendere le sue parole:
«Molti vecchi ebrei italiani che, fino a oggi, si sono limitati a deprecare il falso messia Jacob Frank, paradossalmente hanno guardato alle vicende dell’altro famoso falso messia Shabbetai Tzevì se non con ammirazione, almeno con trepidazione e sconcerto. Tutto ciò forse dipende dal fatto che molti hanno letto, magari in giovanissima età, I sognatori del Ghetto di Israele (sic) Zangwill e vedono Shabbetai Tzevì non tanto come un falso profeta quanto piuttosto come un sognatore del ghetto. Sognatori del ghetto come siamo sempre rimasti tutti noi nell’orribile scorrere del XX secolo».
Non so se il lettore non “iniziato” riesce a comprendere dove queste parole vorrebbero andare a parare. Per quanto mi riguarda, io non voglio ricevere l’ennesima “minaccia di querela” (è successo e non ho ne ha parlato solo perché non ho soldi per difendermi), ma mi limito a osservare come, nell’orribile scorrere del XXI secolo, tanti pensatori ebrei italiani abbiano voluto inserire nel pantheon un nuovo “sognatore”, forse “un po’ criminale (e che importa?)” (cito sempre Aldo Zargani) che si chiama appunto Jacob Frank.
«Come giudicare i neocristiani fraudolenti di Frank che veneravano giorno e notte la Madonna di Częstochowa nella certezza che da essa sarebbe presto scaturita… la Shekhinnà? E come giudicare l’oppressione che talvolta obbligava gli ebrei a mescolarsi coi polacchi, e gli ebrei che cambiavano nome con quello delle famiglie aristocratiche che li avevano in qualche modo accolti nel proprio seno? Certo, qualche volta era proibito anche mescolarsi coi Polacchi, sia dai Polacchi che dagli ebrei, e anche dai Frankisti che in questo caos primigenio passarono anche attraverso la fase dei matrimoni endogamici all’interno della propria setta.
[…] Frank era un po’ criminale, questo è assodato, e tali erano anche i suoi seguaci, ma la sua differenza da Shabbetai Tzevì non consisteva tanto nella minore dirittura morale, quanto piuttosto nella diversità fra spontaneità mistica e astuta progettualità. Sembra quasi che Frank avesse come ideato tutto fin dal principio, salvo adattarsi poi disperatamente al mutare convulso delle tumultuose realtà ambientali in un mondo senza confini ma troppo vicino a troppi confini. Fu così che i Frankisti, in più fasi e con continui ritorni, si convertirono al cattolicesimo, all’Islam, al cristianesimo russo ortodosso, poi di nuovo al cattolicesimo, e avrebbero continuato le loro conversioni se fossero riusciti a perdurare, perché in realtà, come i più solari sabbatiani, loro cercavano, non di disertare, ma di fuggire.
Da che cosa? Cercavano di allontanarsi dalla condizione nella quale erano serrati gli ebrei, conservando in segreto quanto ritenevano irrinunciabile dei valori del giudaismo, come avevano già fatto i marrani in Spagna […]».
Et de hoc satis.
E aggiungo anche, visto che siamo in tema di latinorum un po’ legalese: Qui habet aures audiendi audiat…
PS: Nel classico di Zangwill, Sabbatai Zevi viene descritto come maestro della dissimulazione e “sognatore” della salvezza di Israele nella prospettiva cabalistica di un’era di pace e fratellanza. Zangwill, come è noto, è teorizzatore del concetto di melting pot, che molta parte ha avuto nel forgiare l’odierno pregiudizio positivo nei confronti dell’immigrazione. Il “falso messia” è considerata come una figura animata da aspirazioni sincere, in contrasto proprio col “gretto” razionalista Spinoza ad egli contemporaneo, che viene ricordato in maniera positiva solamente perché riuscì a non cedere alle tentazioni del “mondo”.