Aveva ragione Oscar Wilde a dire che nella vita ci sono solo due grandi tragedie: One is not getting what one wants, and the other is getting it. Infatti ora che viviamo in una società interamente clericale, io dovrei essere contento, visto che è quello che ho sempre desiderato. L’apoteosi è stata raggiunga con la preghiera in comune tra musulmani e cattolici in risposta all’ennesimo attentato in terra francese. Certo è strano che nonostante si continui ad affermare che islam e terrorismo non hanno nulla a che fare uno con l’altro (tuttalpiù qualche sociologo ammette che il radicalismo si è “islamizzato”), le autorità religiose approfittino per intensificare le iniziative di dialogo. Ma questo è il fatidico spirito dei tempi: i preti e gli imam ci vogliono uniti, solidali e contenti.
Qualcosa però sfugge, e rende inquieti. Infatti in questa società ormai perfetta nessuno si oppone più al peccato: né le autorità cattoliche, né quelle islamiche (che sono tutte un “vorrei ma non posso” proprio perché vivono con la spada di Damocle del terrorismo). Anzi, il peccatore oggi è solamente colui che si permette di dire qualche parola contro il peccato stesso: egli pecca di mancanza di misericordia e carità.
Insomma, la società clericale è una fregatura: è la terra desolata dell’immoralismo e dell’irreligiosità. Chi è cattolico può ancora entusiasmarsi, per bieco identitarismo, della gesuitica sagacia con cui al momento opportuno si è provveduto a fornire di una base confessionale il nichilismo, ma al contempo non può che piangere e stridere i denti.
Io, per esempio, non potrei vivere in un mondo dove sia peccato chiamare il male “male” e il bene “bene”. Eppure questo è quello che dicono oggi i preti (costringendo gli imam a venirgli appresso): chi afferma l’esistenza del bene e del male è il vero malvagio. Il mondo è buono, perché l’uomo è buono e Dio è buono (non è nemmeno cattolico, quindi è sicuramente buono).
Una volta i chierici ci mandavano come agnelli in mezzo ai lupi, e noi lo accettavamo, perché un bel martirio non ha mai spaventato nessuno. Oggi invece ci mandano come agnelli in mezzo agli agnelli, ovvero ci obbligano a obbedire a un unico comandamento, homo homini agnus, e ad agire di conseguenza.
Ciò comporta che anche chi soccombe al male, non può comunque ricevere la qualifica di “martire”, perché ciò testimonierebbe (come da etimo), l’esistenza di questo male, che invece non esiste. Le vittime devono quindi far poco baccano, stare in silenzio per non compromettere l’universale bontà che pervade il mondo (dal che si evince che Sade fu uno dei più grandi rappresentanti del buonismo).
I chierici oggi dicono che per eliminare il male dal mondo basta non denunciarlo. Finalmente la Chiesa diventa “misericordiosa” nel senso inteso da Simone Weil: basta con la superstizione giudaica e romana di distinguere giuridicamente il bene dal male, torniamo “greci”, nel senso di quella grecità contraffatta sulla quale gli intellettuali novecenteschi hanno strologato abbastanza.
L’immoralismo “greco” armonizza efficacemente il bene e il male nella nozione di destino: quest’idea che il male lo abbiano inventato la tradizione mosaica e il cristianesimo “romanizzato” (cioè il cattolicesimo fino a quale anno fa), tramandata da varie conventicole intellettuale, pare esser diventata uno dei pilastri della nuova “dottrina”.
Per esempio, nel suo diario Cesare Pavese scriveva che «la situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. […] Di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dover essere» e che «nella tragedia greca non ci sono i malvagi. Non vi si chiarisce una responsabilità, si constata un fato, un destino».
A livello più elementare, Umberto Galimberti ha esposto in vari talk show la consapevolezza che il giudeo-cristianesimo ha imposto la ragione, la religione, la morale, la scienza, l’inquinamento ecc. in contrasto con una artefatta “cultura greca”, che credeva nell’impossibilità di combattere il male, nell’insensatezza dell’esistenza, nella gioia di vivere ecc.
In ambito cattolico, questa concezione del “tragico greco” è divulgata principalmente da mons. Bruno Forte, ma ovviamente è in generale accettata da tutti quelli che desiderano “purificare” la religione.
Si tratta di un’idea pop, che sembra piacere un po’ a tutti. Personalmente la “percepisco” in quasi tutte le dichiarazioni delle più alte personalità ecclesiastiche. Tanto è che quando ho visto imam e preti pregare assieme nelle chiese vuote, mi è tornato in mente, con un tocco di perfidia, una pagina di Emil Cioran:
«Qualche anno fa in Romania c’è stato un terremoto, e sullo “Herald Tribune”, in prima pagina, ho letto che Sibiu, ovverossia Hermannstadt, era andata distrutta. Ricordo che è successo di sabato. La notizia mi ha fatto male, molto male. Sono piombato in un profondo pessimismo. Uscendo di casa, ho pensato di andare in una chiesa. Sono passato vicino a Notre-Dame, ma non avevo voglia di entrare. Continuo a camminare in uno stato di letargia assoluta, e vedo, non so dove, il cartellone di un film pornografico. Entro nel cinema, che era pieno di operai stranieri. Il film era penoso, assolutamente rivoltante. Ma, nel mio sconforto, era proprio quello che mi ci voleva. È assurdo, dicevo fra me. La civiltà che produce simili film è prossima alla fine. Ho pensato che in un regime comunista non ci sarà altro di buono, ma almeno non fanno vedere film del genere. Questo pensiero mi consolava. Può immaginare in che stato mi trovassi. Invece di entrare a Notre-Dame, vado a vedere un film che rafforza in me l’idea che la nostra civiltà sia finita, che l’umanità sia perduta. Ho pensato a Hermannstadt […] la città che ho tanto amato» (cfr. Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, Milano, 2004 p. 204).
Che dire? Una location del genere forse sarebbe stata più in linea con lo spirito dei tempi.