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Un popolo senza tabù alimentari può governare il mondo?

Se gli alieni sbarcassero in una campagna cinese, sicuramente qualche contadino se li divorerebbe: il meme, reso celebre dall’internet, per quanto possa risultare frutto di pregiudizi e forse anche di razzismo, contiene una piccola verità. I cinesi, infatti, sono uno dei pochi popoli al mondo quasi totalmente privi di tabù alimentari, salvo quelli imposti dalle religioni (buddhismo, taoismo e islam).

Per dire: cani, gatti, pipistrelli, rospi, serpenti, larve, gabbiani, tartarughe, aironi, istrici…  La lista è lunga e si ingannerebbe chi pensasse che l’onnivorismo estremo degli abitanti del Celeste Impero sia più dettato dalla necessità che non da credenze folkloristiche (specialmente quelle riguardanti il vigore sessuale). Il giornalista Karl Taro Greenfeld in un libro dedicato alla SARS ormai datato (China Syndrome), registrava la massificazione della tradizionale cultura dello yěwèi (le “gare” imperiali a chi riusciva a mangiarsi gli animali più strani) come conseguenza del benessere diffuso, dalla quale era poi scaturita una nuova Era of Wild Flavor (“Era delle specialità selvatiche”): “In questa nuova era la diversità e la quantità di animali consumati sono cresciute fino ad abbracciare praticamente tutte le creature di terra, di aria o di mare”.

Non esistono ancora studi sul rapporto tra tabù alimentari e prevenzione delle epidemie: un caso da approfondire, citato anche da Quammen nell’ormai popolarissimo Spillover, riguarda la diffusione del virus Nipah in Bangladesh. Se le condizioni igieniche della nazione fossero state migliori, la proibizione del consumo di carne di maiale dettata dall’islam (religione seguita dalla quasi totalità della popolazione), avrebbe contribuito a frenare l’infezione, della quale invece si sono registrati comunque focolai a causa dei residui di feci di pipistrello nel succo di palma di dattero.

Se i cinesi dunque vogliono conquistare il mondo, devono almeno imporsi qualche tabù alimentare per evitare di infettare l’intero orbe terracqueo con una patologia seria: perché, naturalmente, il covid non lo è. E ora siamo appunto costretti a parlare un po’ di questo coronavirus, a causa del quale le élite politiche occidentali hanno deciso di distruggere le economie dei Paesi che governano (oltre a sbarazzarsi anche dell’habeas corpus,  della democrazia e altre inezie).

Il punto fondamentale è che il covid, nonostante quanto dichiarato avventatamente da qualche ministro, non è la peste: in uno studio apparso sul bollettino ufficiale dell’OMS, l’epidemiologo dell’Università di Stanford John Ioannidis ha stimato che il tasso di letalità nelle persone sane al di sotto dei 70 anni è la metà (0,05%) di quello dell’influenza stagionale (0,1%). Il fatto che un Paese come l’Italia sia balzato al primo posto nella classifica di morti per 100.000 abitanti (mentre è al terzo, dopo Belgio e Perù, in quella per ogni milione – tabelle nelle quali il tanto vituperato Brasile appare al di sotto dei principali Paesi europei) è un dato che dovrebbe dir molto sull’inettitudine della nostra classe dirigente, che come ciliegina sulla torta della propria insipienza non trova di meglio che dar la colpa ai governati “irresponsabili” (mentre se brasiliani e inglesi si ammalano è solo colpa di Bolsonaro o Johnson). La sostanza è invece che, per usare una metafora, si è riusciti a dare fuoco a un palazzo con un fiammifero.

Lo ha notato persino l’attuale direttore della Stampa Massimo Giannini che, direttamente dalla terapia intensiva, ha elencato qualcuna delle misure promesse dal governo mai messa in atto nel periodo tra le cosiddette “ondate”:

“Dopo il disastro di marzo-aprile dovevamo fare 3.443 nuovi posti letto di terapia intensiva e 4.200 di sub-intensiva, ma ne abbiamo fatti solo 1.300: di chi è la colpa? Mancano all’appello 1.600 ventilatori polmonari, dice il ministro Boccia: di chi è la colpa? Dovevamo assumere 81mila tra medici infermieri e operatori sanitari, ma al 9 ottobre ne risultano 33.857, tutti contratti a termine: di chi è la colpa?”

Essendo tuttavia uno dei principali rappresentanti del Partito del Raffreddore, il Nostro non ha potuto dedurre la palese incapacità delle forze di governo, ma ha preferito invocare, esprimendosi nel modo più ridicolo possibile, la “cessione di quote di libertà”:

“Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà. Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del ‘Non possiamo chiudere tutto’ cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono. Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere quote di libertà. Non c’è altra soluzione”. 

Il suo stesso giornale, a metà ottobre, denunciava il mancato potenziamento dell’organico sanitario: forse sarebbe stato più opportuno per il Direttore ribadire il punto piuttosto che suggerire meschinamente un aut aut tra libertà e salute, come se in una democrazia non si potesse rivendicare il diritto a entrambe.

Ad ogni modo, la questione è sempre la stessa: la volontà di mascherare intenzioni politiche dietro un virus dal tasso di letalità inferiore alla comune influenza. Se per esempio qualcuno, come gli appartenenti al fantozziano Comitato Tecnico-Scientifico, desidera trasformare la mascherina in un “segnale di attenzione” (contravvenendo peraltro alle direttive dell’OMS che invita a non infondere “falsa sicurezza” imponendole ovunque e in ogni istante), cioè fare di un dispositivo medico un dispositivo sociale, dovrebbe dirlo apertamente. Come ha fatto pe la dottoressa Krutika Kuppalli, una delle “super-esperte” arruolate dal governo americano:

“Mi sembra che ci sia questa percezione che una volta che avremo un vaccino contro il coronavirus la vita tornerà alla normalità. Ma la vita non sarà più come quella prima del Covid. Anche dopo che avremo un vaccino, dovrai comunque mantenere una buona igiene delle mani, rispettare il distanziamento sociale, evitare la folla e indossare mascherine”

[Ci si augura che anche in America non siano arrivate le mascherine cancerogene al biossido di titanio].

Chiaramente esiste una nuova class di burocrati “tecno-scientifici” che vuole trasformare le società occidentali in giganteschi ospedali non tanto per “salvare vite”, quanto per poter finalmente assaporare l’ebrezza del potere: del resto, è proprio approfittando delle catastrofe naturali che generalmente si formano le caste sacerdotali, (si veda l’esempio dell’America precolombiana). Per questo si parla di “dittatura sanitaria”: perché perlomeno in Cina il contenimento della pandemia ha rappresentato l’estensione di un potere dotato di una qualche legittimità e non l’emersione di una serie di apparati legibus solutus esautorati da qualsiasi responsabilità riguardo alle conseguenze delle proprie decisioni (una sorta di versione biopolitica della tecnocrazia montiana).

Concludiamo tornando alla questione dei tabù alimentari: sembra che più ne esistano e più si riducano le possibilità del “salto di specie”. Naturalmente trarre la conseguenza che la religione con più proibizioni gastronomiche dovrebbe diventare universale è appunto una di quelle furbizie di cui si discuteva più sopra. Al contrario, porre fine alla globalizzazione a causa delle pandemie già sembrerebbe meno assurdo, nel momento in cui per esempio i costi sanitari vengono messi sullo stesso piatto (bipartisan) della delocalizzazione, del consumismo, dell’impatto antropico, della distruzione del welfare o del dumping salariale. Solo per ribadire, ancora, che è tutta politica.

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