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Un sogno tutto israeliano

“Avvenire” (“il quotidiano dei vescovi”, come lo definiscono le altre gazzette) commenta con toni entusiastici il prossimo “sbarco sulla Luna” di Israele (La missione spaziale. Israele parte per la Luna, 22 febbraio 2019):

«È iniziata l’avventura di Israele sulla Luna. L’altra notte, alle 3:45, è decollato dalla base americana di Cape Canaveral (Florida) il razzo Falcon 9 dell’azienda Space X con a bordo la sonda spaziale Beresheet (“Genesi” in ebraico). È previsto che la navicella atterri sulla Luna l’11 aprile, dopo un tragitto di 6.5 milioni di chilometri. […] L’operazione segna due record storici: è la prima missione lunare israeliana ed è la prima missione privata sul nostro satellite. […] In un video in cui “si presenta”, Beresheet si dice pronta non solo a portare a termine la sua missione ma anche ad ispirare i giovani a seguire il mondo dell’esplorazione spaziale. “Voglio regalare un sogno”, spiega. Tutto israeliano».

Ok, alla grandissima, avanti Leoni di Giuda, ma… diamoci una calmata, no? Voglio dire: non credo che la testata in cinquant’anni e passa abbia mai usato l’espressione “sogno tutto cristiano” o (sia mai) “sogno tutto italiano”. D’alto canto anche la Polonia sta rilanciando il suo programma spaziale, ma sul “quotidiano cattolico” non se n’è scritto discusso nemmeno per sbaglio: evidentemente i polacchi sono ancora troppo cattolici e troppo poco “cristiani” nel senso bergogliano del termine (sorvoliamo sul loro antisemitismo congenito e atavico). Eppure vediamo che per celebrare l’espansione ebraica tra le galassie in redazione si stappano bocce di champagne (rigorosamente kosher?).

Non va bene, non va bene: certo, si può parlare dell’argomento in maniera rilassata perché a quanto pare la luna è disabitata e non c’è quindi pericolo che qualche autoctono selenita faccia la fine de palestinesi. Tuttavia la forte connotazione etnico-religiosa della missione dovrebbe rendere difficile mascherarla da “vittoria dell’umanità”. Leggiamo infatti ancora dal “giornale dei vescovi” che

«Beresheet […] è anche una “capsula del tempo”, che porta a bordo una Torah (la Bibbia Ebraica) iscritta con la nanotecnologia su un piccolo supporto di metallo, una bandiera israeliana, i ricordi di un sopravvissuto alla Shoah, disegni dei bambini e migliaia di file digitali con i simboli e la storia di Israele».

Altro che il Voyager Golden Record! Mi auguro almeno che alle memorie del sopravvissuto all’olocausto gli israeliani abbiano aggiunto un breve riassunto su cosa potrebbe accadere a un alieno che volesse indagare sulle quelle memorie durante un soggiorno sul Pianeta Terra (o c’è già l’intenzione di estendere il reato di revisionismo alla Luna?).

A parte le battute, la polemica non è pretestuosa, poiché quando per esempio i russi portarono l’icona della Madonna di Kazan nello spazio, i giornali italiani pensarono bene di “sforbiciarla”. Perlomeno all’epoca “Avvenire” si concesse il lusso di polemizzare con la censura anti-cristiana massmediatica, seppur relegando la protestate all’angolo della posta; ma era solo il 2014, il bergoglismo non aveva ancora attecchito nel profondo: oggi probabilmente ci si limiterebbe a un “religioso” silenzio.

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Aggiornamento (13 aprile 2019): La sonda Beresheet si è schiantata per un’avaria al motore nei pressi del Mare Serenitatis, sul lato visibile della Luna. Per i fratelli maggiori ci sarà comunque un premio di consolazione: Google ha infatti già annunciato che offrirà alla SpaceIL (l’agenzia privata che ha realizzato la sonda) un milione di dollari del concorso Lunar X Prize per ritentare l’impresa.

Lasciando da parte qualsiasi Schadenfreude, la “missione da record” avrebbe rappresentato un problema sia, come ricordavamo più sopra, per il suo smaccato carattere etnocentrico (che sarebbe stato camuffato da “grande passo per l’umanità”), sia perché avrebbe fornito un altro cavallo di battaglia ai fanatici del “privato”, pronti a rilanciare la propaganda sullo “Stato sprecone” nello spazio profondo.

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