In questi anni siamo andati in overdose di “piuttosto che” con valore disgiuntivo e di “criticità” come sinonimo di crisi o problema. Ha ragione la Crusca, perciò, a sostenere che «un “piuttosto che” abusivamente equiparato a “o” può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio» (anche se la stessa Accademia ha poi utilizzato l’espressione “criticità” nel titolo di un seminario).
Mettiamo che in Italia un giorno fosse reintrodotto il nucleare: se nei pressi di una centrale un addetto alla sicurezza ci informasse che “è stata raggiunta una condizione di criticità”, come dovremmo interpretare l’annuncio? Come un invito a stare tranquilli perché i reattori funzionano alla grande, oppure come un segnale di pericolo? La situazione risulterebbe ancora più ambigua nel caso che nelle centrali nucleari del futuro lavorassero solo androidi, e non quelli sexy e piagnucolosi di Blade Runner, ma proprio macchine inespressive con un solo tono di voce.
Infatti, qualora volessimo chiedere ulteriori spiegazioni, “Signor androide intende dire che è opportuno allontanarsi dalla centrale?”, e l’androide rispondesse: “Potreste allontanarvi piuttosto che restare”, cosa dovremmo, ancora, dedurre da questa affermazione? Che è meglio scappare via oppure che una cosa vale l’altra (e dunque la situazione è tranquilla perché l’androide giustamente non può impartire ordini, ma soltanto limitarsi a ribadire le due opzioni disponibili)?
Sì, è ovvio che in caso di catastrofe nucleare saremmo spacciati comunque, ma non sarebbe meglio saltare in aria consapevolmente piuttosto che senza capire un cazzo come al solito?
Perciò si raccomanda per il futuro di dire “problema” (anche pronunciato male, “probblema”, “pobblema”), piuttosto che “criticità”, e “piuttosto che” solo quando si esprime una preferenza (“È preferibile utilizzare “o” piuttosto che “piuttosto che” con valore disgiuntivo”).
Il piuttosto che usato male è un’invenzione dei milanesi. Città da radere al suolo.