Una linea rossa nel deserto: cosa vuole fare ora Trump in Siria?

Donald Trump ha appena lasciato un commento su X (tornato a essere il suo ufficio stampa dopo il golpe muskiano) sulla situazione siriana, con i soliti toni provocatori e nebulosi che hanno caratterizzato il suo approccio durante il primo mandato (enfasi nell’originale):

«I combattenti dell’opposizione in Siria, con una mossa senza precedenti, hanno assunto il controllo totale di numerose città, in un’offensiva altamente coordinata, e ora sono alla periferia di Damasco, ovviamente pronti a mettere in atto un’azione incredibile per eliminare Assad. La Russia, impegnata in Ucraina, dove ha perso oltre 600.000 soldati, sembra incapace di fermare questa marcia attraverso la Siria, un Paese che ha protetto per anni. È qui che l’ex presidente Obama si è rifiutato di onorare il suo impegno di proteggere la LINEA ROSSA NEL DESERTO, ed è scoppiato l’inferno, con la Russia che è poi intervenuta. Ma ora i russi sono, come forse lo stesso Assad, costretti ad andarsene, e potrebbe essere in realtà la cosa migliore che possa capitargli. La Russia non ha mai avuto granché da guadagnare in Siria, se non la possibiità di far passare Obama per uno stupido. In ogni caso, la Siria è un disastro, ma non è nostra amica, e GLI STATI UNITI NON DOVREBBERO AVERE NULLA A CHE FARE CON ESSA. QUESTA NON È LA NOSTRA GUERRA. LASCIATE CHE VADA COME DEVE ANDARE. NON FACCIAMOCI COINVOLGERE!».

In effetti, tra covid e Ucraina, ci eravamo tutti dimenticati di Damasco. Giusto per ricapitolare, all’inizio del 2019 con una mossa a sorpresa Donald aveva annunciato il ritiro dei 2000 soldati americani dalla Siria, creando un effettivo scompiglio nell’onnipresente fazione neocon del suo entourage (ci furono infatti dimissioni eclatanti come quella del segretario alla Difesa Jim Mattis).

Al di là dell’intermezzo bideniano, obiettivamente ininfluente nel contesto siriano come il suo predecessore democratico (lo “stupido” Obama), sembra che le trattative dietro le quinte siano andate in questo modo (sono mie elucubrazioni tratte dalle indiscrezioni della stampa internazionale): da una parte, l’Isis è stato smantellato semplicemente con la sospensione, da parte di Washington, dei finanziamenti sottobanco.

In cambio, è stata pretesa una “normalizzazione” degli elementi più pericolosi dei cosiddetti “ribelli” da far gestire indirettamente a Erdoğan, al quale è stata poi consegnata la testa del “falchetto” John Bolton (a suo dire uno degli organizzatori del tentato golpe del 2016) e l’assicurazione che gli Stati Uniti non sarebbero più intervenuti a sostegno delle milizie curde che minacciano l’integrità territoriale della Turchia al confine con la Siria.

Per bilanciare tuttavia l’eventuale “espansionismo” di Ankara, gli americani hanno incaricato (sempre in modo informale) gli israeliani di proteggere anche le organizzazioni curde paraterroristiche (in questo Tel Aviv è subentrata letteralmente agli USA, con buona pace dei poveri avanzi di centro sociale) e di tenere sotto stretta sorveglianza gli jihadisti “moderati”, fomentando tra loro la propaganda anti-iraniana.

Questo spiegherebbe l’incessante attivismo israeliano persino nel cuore del regime e il nuovo exploit dell’opposizione, che senza un coordinamento costante con i suoi mandanti si sarebbe sfaldata come neve al sole. Ovviamente tutto ciò non esclude un coinvolgimento anche della Russia, che deve aver programmato una qualche specie di ritiro risparmiando tuttavia ad Assad la fine di Milošević, Saddam o Gheddafi.

Per il resto, sembra che le fette della torta siriana siano state cinicamente già spartite: Putin perde lo storico sbocco nel Mediterraneo in cambio di parti dell’Ucraina; Erdoğan può avere carta bianca con i curdi e magari procedere al rimpatrio dei profughi siriani che gli stanno causando parecchi problemi a livello di consenso interno; Israele può continuare a delirare sui suoi progetti di conquista totale dell’area; Washington può sfilarsi da una guerra che in realtà non ha mai voluto combattere.

Questo però è uno scenario fin troppo razionale in un contesto all’insegna della contraddizione: e se lo Zar si fosse effettivamente arreso perché non più in grado di garantire un supporto ad Assad, genuflettendosi nuovamente all’Occidente perché incapace davvero di sognare un nuovo impero russo? E se Erdoğan fosse stato colto di sorpresa e non avesse spazio diplomatico per trattare con Israele? E se gli Stati Uniti si ritrovassero addirittura a intervenire causa l’incredibile polverone che sta montando tra fazioni avverse, fanatici e pseudo-democratici?

L’interesse dell’Europa, sempre inconfessabile, sarebbe quello di raggiungere una qualsiasi pacificazione in Siria e rimpatriare tutte le famigliole damascene in maniera discreta e “umanitaria”: eppure all’orizzonte è difficile non intravvedere un altro inferno libico, dove nuovi e vecchi profughi, piuttosto che tornare a ricostruire il proprio Paese, preferiranno esportare la guerra civile in altre nazioni. Quale ordine potrebbe nascere da questo caos?

Nel frattempo, giusto per sapere, i “ribelli moderati” hanno assaltato l’Ambasciata italiana a Damasco: facile far battute su Tajani (avrà telefonato a qualcuno?), ma il problema allo stato attuale è soprattutto dei francesi e dei tedeschi, che però probabilmente non vedono l’ora, come al solito, di lasciare Roma col cerino acceso in mano.

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