Nel 2005 uno scrittore di Haarlem, tale Arthur Japin, scoprì all’Istituto di Anatomia dell’Università di Leida la testa di un re ghanese di etnia ahanta, Badu Bonsu II, che venne giustiziato nel 1838 dopo che la sua insurrezione contro il dominio olandese nella cosiddetta “Costa d’Oro” aveva causato la morte del reggente Hendrik Tonneboeijer. La testa del capo ribelle venne portata nei Paesi Bassi per essere dissezionata ed esaminata secondo i criteri frenologici dell’epoca, ma per oltre un secolo se ne persero le tracce, finché appunto non capitò a questo Japin di imbattersi in essa, conservata in una bottiglia sotto formaldeide, «col volto incorniciato da una leggera barba e gli occhi chiusi».
Dopo un’intensa campagna stampa, nel luglio del 2009 la testa venne restituita con una cerimonia ufficiale a L’Aja al governo ghanese, che peraltro aveva giustificato la propria richiesta non solo per ragioni politiche, ma anche in base alle credenze del folklore locale, secondo le quali lo spirito di una persona decapitata è costretto a vagare in eterno finché il suo cadavere non venga ricomposto. La “reliquia” è stata perciò accolta con tutti gli onori e dopo una serie di strani esorcismi “decontaminanti” (tra i riti, un brindisi con del gin olandese poi asperso sul pavimento…) sono state celebrate esequie di Stato per l’ex monarca.
Sull’argomento sarebbe possibile dibattere all’infinito, partendo dal classico del Kantorowicz I due corpi del Re, passando per la sterminata bibliografia etnologica sulle reliquie, fino al pregevole saggio dell’antropologa americana Katherine Verdery The Political Lives of Dead Bodies che racconta l’incessante afflusso di ossa che interessò i Paesi dell’Est dopo il crollo dell’Unione Sovietica: scrittori, poeti, vescovi e attivisti morti in esilio le cui spoglie ritornavano alle patrie “liberate”.
Molti storici si soffermano sulla fantasmagorica processione con cui il reliquiario del principe Lazar venne restituito al Monastero di Ravanica nel 1989, considerato una sorta di prodromo (sempre “magico”) al revanscismo serbo. Percorso praticamente identico a quello dei resti di Nicola I del Montenegro, tradotti dalla chiesa russa ortodossa di Sanremo a Cettigne, antica capitale del Regno. E, sempre in tema Savoia (ricordiamo che Nicola era padre della Regina consorte Elena), il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III al santuario di Vicoforte nel 2017, che nella fantasia della nostra intellighenzia avrebbe dovuto propiziare chissà quale terremoto ideologico-politico (dopotutto siamo sempre nell’ambito del pensiero magico).
Ad ogni modo, da una prospettiva meno ampia, ciò che dovrebbe interessare è soprattutto il legame tra decapitazione e profanazione, che nel caso del sovrano africano non sembra sussistere (se non implicitamente), dal momento che la rimozione della testa fu giustificata in base a motivi “scientifici”. Un gesto perciò non riconducibile a quanto, meno di un secolo prima, accade in Europa con la Rivoluzione, che in particolare con l’episodio della decapitazione (preceduta da atroci torture) della Principessa di Lamballe (Maria Teresa Luisa di Savoia) nel settembre del 1792 dimostrò il proprio intento dissacratorio in senso etimologico: la testa della principessa venne incipriata e pettinata prima di essere portata in corteo infilata su una picca.
Il collegamento con le decapitazioni regali può apparire scontato, ma c’è una circostanza che riporta alla vicenda di Badu Bonsu II: la controversia riguardante la testa di Enrico IV sorta nel 2010. Come è noto, durante la profanazione delle tombe reali della Basilica di Saint-Denis nel 1792 venne anche trafugata la reliquia di Enrico il Grande (assassinato nel 1610 da François Ravaillac), che finì in casa di un rigattiere e ricomparve dopo un secolo e mezzo in una collezione privata. Il medico legale Philippe Charlier, dopo mesi di ricerche, credette di aver dimostrato l’appartenenza del cranio mummificato al re di Francia, rifacendosi anche ai “segni particolari” presenti nei suoi ritratti (tra le quali le più evidenti una macchia scura sulla narice destra e una lesione ossea sopra il labbro superiore). I risultati dello studio vennero pubblicati dal British Medical Journal.
Nel 2012 venne condotto un ulteriore studio di conferma, pubblicato su Forensic Science International, attraverso la comparazione genetica con il sangue di Luigi XVI. Nonostante il dibattito sia ancora aperto e alcuni studiosi smentiscano l’attendibilità delle ricerche, è stata presa ugualmente la decisione di riportare la testa di Enrico IV all’Abbazia di Saint Denis, anche se la cerimonia ufficiale è ancora in sospeso: complici i travagli politici dell’allora Presidente Nicolas Sarkozy (al quale Luigi Alfonso di Borbone aveva donato la reliquia) e il prevedibile disinteresse dei suoi successori. L’intento di Emmanuel Macron non è pervenuto (anche lui ha altro a cui pensare), ma dubitiamo che in circostanze più favorevoli egli non avrebbe sfruttato l’occasione per ricomporre letteralmente il corps politique della nazione e magari conferirsi novelle virtù taumaturgiche.