Unione Europea: il bottino di guerra

La stretta sui crediti deteriorati (i cosiddetti Non-Performing Loans, NPL) imposta dalla commissione di vigilanza della BCE (organo “tecnico” presieduto dalla francese Danièle Nouy) ha scatenato una levata di scudi da parte del mondo politico e finanziario italiano. Anche un profano può rendersi conto della gravità della situazione, se la scelta di imporre meccanismi di accantonamento di stampo draconiano (i crediti non garantiti passerebbero integralmente in “sofferenza” nel giro di soli due anni), è stata definita “folle e suicida” nientedimeno che da Matteo Renzi (il quale ha lanciato su Twitter il puerile hashtag #europasìmanoncosì), seguito a ruota da Confindustria (“misura incomprensibile e irragionevole”), Antonio Tajani (che ha rivolto un accorato appello a Draghi) e dal più infervorato di tutti, il presidente dell’Associazione Bancaria Italiana Antonio Patuelli (“è un terremoto, un macigno”), che in un’intervista al “Corriere” ha invero perfettamente riassunto le “criticità” (come si dice oggi) della forzatura della Nouy: la BCE cambia in corsa le regole con un addendum da discutere in meno di un mese («Si apre una consultazione europea il 4 ottobre e la si chiude l’8 dicembre, per decidere regole che le banche dovrebbero seguire dal primo gennaio»), promuovendo un’iniziativa che da una parte porterebbe a una svendita dei NPL e dall’altra a un nuovo credit crunch.

Tali “morsi di pecora” sono sintomatici di una situazione in cui l’esterofilia ha ucciso la diplomazia: dal momento che non c’è più nessuno a trattare “dietro le quinte” (né sherpastakeholders), a dettare la comunicazione politica restano solo il panico e gli isterismi. Lo stupore che emerge da queste dichiarazioni rivela i limiti culturali (e forse anche umani) di chi dovrebbe difendere gli interessi italiani nell’Ue: “Ma come”, sembra esclamare Patuelli, “noi abbiamo fatto i fatidici compiti a casa («In sette mesi, da gennaio a luglio, le sofferenze nette sono calate in Italia del 23% alla cifra record di 65 miliardi») e voi ci mettete ancora dietro la lavagna!”.

A quanto pare i nostri rappresentanti non hanno ancora capito come funzionano le cose giù a Bruxelles: non riescono a vedere, dietro le mosse “tecniche” della Nouy, la volontà tedesca di testare l’Unione fino al limite di rottura (è una delle conseguenze delle loro ultime elezioni), non senza prima garantirsi un bottino di guerra (tutte le “banchette” italiane che riusciranno ad accaparrarsi) nel caso i conflitti si rivelino insanabili.

A livello economico e politico, stiamo assistendo a una riedizione del bail-in: un’altra mossa per espropriare quel che resta del risparmio italiano col miraggio dell’unione bancaria. È come la storia dell’asino con la carota: nonostante la Germania dichiari apertamente di non volere alcuna garanzia comune sui depositi o mutualizzazione dei debiti, i contribuenti italiani sono stati costretti dalla propria classe politica attraverso il famigerato MES a far rientrare le banche tedesche e francesi dall’esposizione in Grecia, per poi assistere infine alla distruzione del proprio sistema bancario (col cosiddetto “salvataggio interno” di cui sopra).

Finora l’unica risposta possibile è stata l’autoflagellazione: chi non ha mai sentito la storiella dei tedeschi virtuosi che hanno nazionalizzato le proprie banche (utilizzando 259 miliardi su 646 miliardi stanziati) al “momento buono”, mentre gli italiani sottosviluppati non hanno salvato le loro quando non erano in crisi (ma guarda caso, proprio adesso che sono in crisi, non possono più farlo…)?
Ora invece, dai toni apocalittici si intuisce che il percorso sta per essere completato e dunque anche le reazioni si fanno meno indolenti: il sistema italiano è destabilizzato e dissanguato, i crediti deteriorati stanno per essere razziati al prezzo più conveniente e il patrimonio bancario verrà incamerato con un semplice addendum. Persino l’atteggiamento di Berlino, del resto, sembra farsi più sprezzante: nel lasciare il suo posto di Ministro delle finanze (ancora in seguito alle ultime elezioni tedesche, tutt’altro che un “trionfo” della Merkel), Wolfgang Schäuble ha voluto fare il verso a Draghi, ribaltando completamente di significato il suo Whatever it takes: altro che Quantitative Easing, costoro anelano a «una misura prociclica, in netta contraddizione con la politica monetaria espansiva ed anticiclica della stessa Bce» (sto citando Confindustria…).

Torniamo allora alla Mme Nouy da cui siamo partiti, ripartendo dal Manoscritto trovato a Saragozza (in realtà a Madrid) della tecnocrate (tecnocrata?) francese: si tratta del testo di una conferenza tenutasi pochi giorni fa (il 27 settembre), Too much of a good thing? The need for consolidation in the European banking sector. Anche chi è completamente digiuno di economia (o è stato messo a digiuno da essa), può comprendere da questo intervento che cosa non funziona in “Europa”.

In sostanza, la Nouy sostiene che il settore bancario è “come il cioccolato” (?): i poveri ne mangiano troppo e stanno male, quindi serve che i grandi cioccolatai divorino i cioccolatini attraverso le “fusioni transfrontaliere” [cross-border mergers].

Gli argomenti che utilizza a supporto delle proprie affermazioni dimostrano come l’economia in questo caso c’entri poco, se non nulla.

Nel primo capitoletto, la Nouy deplora il numero eccessivo di «ingegneri e fisici che si sono rivolti alla costruzione di strumenti finanziari quando avrebbero potuto risolvere i problemi del mondo reale». Sinceramente, un pensiero intriso di così basso moralismo fa violenza allo stesso idioma in cui lo si esprime: sembra quasi che l’eurocrazia voglia smentire l’ipotesi di Sapir-Whorf sulle possibilità che la lingua influenzi il modo di ragionare. Addio pragmatismo anglosassone, quindi: ben venga un po’ di sana e santa ingegneria sociale (così finalmente anche gli ingegneri serviranno a qualcosa nel “mondo reale”!).

In secondo luogo, la Nouy propone la fusione delle piccole banche dei Paesi deboli con le grandi banche dei Paesi forti, come passaggio fondamentale per favorire l’integrazione. Qui ci avviciniamo all’unica vera regola che ispira l’Unione Europea: Fiat iustitia et pereat mundus. Affinché il “mercato europeo” funzioni liberamente, bisogna indirizzarlo verso una “libertà” dal retrogusto russoviano. I paradossi risaltano dalla stessa retorica della Nouy: dal momento che «ci sono troppe banche che competono per i clienti», la BCE deve favorire le fusioni transfrontaliere obbligando le banche «a superare i confini nazionali e le barriere culturali e linguistiche»; il tutto, però, «lasciando il consolidamento alle forze del mercato». Alla faccia di chi sostiene che “in Europa comandano i mercati”, se non ci si fa scrupoli a distruggere qualsiasi mercato per “fare l’Europa”…

A ulteriore conferma che stiamo parlando di ideologia e non economia, la Nouy si appella in ultima istanza al thymos: «Bank mergers […] require an adventurous spirit, a clear vision and a strong will». Lo “spirito avventuroso” è di chi pensa che le barriere culturali e linguistiche si possano cancellare con un addendum; la “visione chiara” è di chi crede che creare dei colossi “troppo grandi per fallire” sul modello americano permetta agli Stati Uniti d’Europa di sorgere dal nulla; sullo “strong will” invece stendiamo un velo pietoso, perché in tedesco suona davvero male (Triumph des Willens).
In conclusione, nonostante tutti i rivolgimenti e gli stracci volanti, temiamo che anche questa storia finirà come le precedenti: le banche tedesche assorbiranno quel che resta del patrimonio italiano, e noi saremmo costretti a prenderci la colpa per non esser stati troppo “europei” e aver così sabotato il mirabolante esperimento, al cui confronto i castelli in aria sono un esempio di concretezza e realismo.

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