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L’uomo è la tecnica (Cesare Pavese)

«Intellettuali e credenti osservano che altro è la mistica società della Chiesa, altro un giuridico sistema d’istituti, come per esempio la società sovietica. È evidente. Ma il discorso continua accusando il materialismo che, insegnato dall’alto, ha pervaso tutta la vita dei russi e ne sospinge, per esempio, larghi strati a dedicare vegli e forze allo spasmodico lavoro di costruire una fabbrica, e  poi le macchine per metterci dentro, e poi quei beni di produzione e consumo che le macchine consentono. Ora, lasciando stare che se i russi non avessero in passato costruito così largamente e di lena, Hitler correrebbe ancora per l’Europa, l’accusa è perlomeno demagogica, ma come? Si consente e anzi inculca al cittadino e cristiano di uccidere e farsi uccidere in guerra – guerra giusta, s’intende, – e poi si condanna come materialistico dedicare la passione e le forze a sollevare la vita del prossimo lavorando? Forse che in guerra si muore altro, nel migliore dei casi, che per migliorare la vita del prossimo? E morire è un po’ più irreparabile che spossarsi nel lavoro, materiale o ideale che sia. In verità sta rinascendo l’assurda e francescana campagna contro l’umano mondo della tecnica, quella campagna che nel secolo scorso fu privilegio degli estetizzanti, poi, nel nostro, dei primitivisti neopagani, e adesso – strano accostamento – dei cristiano-umanisti, tipo Berdiaev. Per non dire di altri. Ma l’uomo è la tecnica, fin dal giorno che impugnò una scure a combattere contro le belve o uno stilo per scrivere; e se oggi la tecnica appare la nemica dello spirito, ciò è vero nel senso che in troppi paesi di questa terra il lavoro che gli uomini compiono è accantonato e reso vano da chi non lavora e c’ingrassa. E la colpa non sarà della tecnica ma di chi crede che lo spirito non sappia di sudore e di terra, e sia altro dall’entusiasmo di scoprire, trasformare e utilizzare la materia, tutta la materia. Per la strada della salvaguardia religiosa dei valori spirituali – diventati beninteso situazioni comode per chi li professa – siamo giunti a un sistema sociale in cui chi lavora sputa l’anima e la sputa chi non lavora. Ma nasca una società in cui l’entusiasmo ha bruciato ogni scorie a e l’opera delle mani è inseparabile da quella del cervello per la comune utilità – e i titolari dello spirito si sdegnano. C’è senso?»

(Cesare Pavese, “Il comunismo e gli intellettuali”, inedito, datato 14-16 aprile 1946, in Saggi letterari, Einaudi, Torino, 1951, p. 213)

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