
Se non fosse stato per alcune circostanze internazionali (in primis la crisi economica) e individuali (in primis… non ne parliamo), a quest’ora magari avrei un sito specializzato in estetica criminale lombarda, o roba del genere; e magari ci sarebbe scappata pure una collaborazione con “Stracult”, o cose del genere.
Era soltanto il 2005, ma per me è davvero un’altra epoca; di quella ossessione ora non resta che qualche rovina, perché alla fine ho sbattuto via tutto (anche se ciò rientra in un fenomeno più grande di rigetto della semi-cultura, ma questa è ancora un’altra storia).
Non so bene da cosa sia nata l’attrazione per il “criminale lombardo” : forse dall’idea che una tale etnica possa generare delinquenti di livello. Noi nordici degli anni ’70-’80 siamo tutti nati in cattività, in particolare quelli come me cresciuti nelle periferie più meridionalizzate che sono passati direttamente dalla criminalità sudista a quella afro-araba-slavo-sinico-balcanica.
Gli ultimi criminali a parlare con cadenza lombarda mi pare di averli visti in È arrivato mio fratello (quello che brucia la mano a Pozzetto, Dalmazio Grenti, che aveva fatto il caratterista nel summenzionato Squadra volante). Poi c’è Massimo Boldi in Scuola di ladri, che non è molto credibile, nemmeno come “Pera” in Fracchia la belva umana o lo “Scoreggione” ne Il ragazzo di campagna.
Beh, recentemente tutto ciò è riemerso a causa dell’ottimo Luca Micheletti, che si è messo a fare proprio Lutring in un film che non ho visto, Italian Gangsters. Se si producono cose del genere, è perché alla fine il mio discorso fila: abbiamo nostalgia di criminali a noi etnicamente e linguisticamente affini per una miriade di ragioni. Delle quali la più importante, ora che ci penso, è che i nostri dialetti in fondo sono abbastanza paciosi, concepiti per cantare in osteria o discutere di fresatrici, trapani elettrici e pialle. Non sono aggressivi come quelli australi: se uno ti rapina in napoletano, calabrese o siciliano (o romeno, arabo albanese), il terrore si impadronisce della tua anima; se invece ti rapina in milanese la cosa è già di per sé meno stressante.
L’ambientazione anni ’60-’70 di Venere privata mette angoscia: i biscotti al plasmon, la Giulietta blu-scuro, le Minox, la Montecatini, i viaggi a Tahiti, le ragazze paragonate a Françoise Hardy, i trentenni che vanno al giardino zoologico per divertirsi e le commesse della Rinascente che studiano dizione.
«In quel tratto di viale che dall’Arco del Sempione mira al Castello Sforzesco, anche appena passate le dieci del mattino, vi sono sul bordo dello stradone accattivanti figure femminili, d’estate sommariamente ma aderentissimamente vestite che sanno di operare in una grande metropoli dove non vi sono provinciali limiti di orario o conformistiche divisioni tra notte e giorno e che a qualunque ora, dalle 00,00 alle 24,00, un cittadino può rallentare con la sua auto, e fermarsi a chiedere la loro cooperazione».
Infine, avrei voluto soffermarmi sui ricordi personali suscitati dalla rilettura, ma non è necessario. Cito solo un passaggio che mi ricorda quasi alla lettera (è inquietante!) i colloqui con la mia ragazza dell’epoca.
In realtà il suo discorso era leggermente più complesso: parlava di uno scrittore americano (o giù di lì) che aveva scritto il romanzo della vita e poi si era suicidato a ventisei anni. Lei ne aveva ventidue o ventitrè, e mi disse “Anch’io farò lo stesso, scriverò un capolavoro, lo pubblicherà Adelphi e a ventisei anni la farò finita”. Poi mi ha lasciato senza addurre motivazioni plausibili, ha pubblicato un racconto per un’antologia di sfigati ma fortunatamente non ha mantenuto la promessa: ricordo che il giorno dopo il suo ventiseiesimo compleanno (e per una settima intera) setacciai la stampa locale (e pure Google News) in cerca di una qualche barlume di sincerità in quella bugiarda patologica. No, neppure lì; come diceva Pavese, «le donne mentono, mentono sempre e ad ogni costo. E non c’è da stupirsi: hanno la menzogna nei genitali stessi. Chi saprà mai quando una donna ha goduto?».
In conclusione, evitate di fare tutto ciò di cui si è parlato finora.