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Verità per Rosa e Olindo

Era inevitabile che si giungesse, in un o modo o in un altro, alla riapertura del processo che ha visto condannati all’ergastolo i coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano per l’eccidio passato alle cronache come “strage di Erba”. Una “riapertura” che al momento consiste solo nella firma del sostituto procuratore della corte d’appello di Milano Cuno Tarfusser su un tentativo di richiesta di revisione, ma che può rappresentare un segnale di un riscatto se non giudiziario, almeno morale, da parte di un sistema che pare abbia compiuto un tragico errore.

In effetti dopo oltre tre lustri sembra sia giunto il momento che l’opinione pubblica si renda conto delle modalità stile “Colonna Infame” con cui la giustizia italiana non ha fatto il suo corso. Da tale prospettiva, è interessante l’inchiesta di oltre tre ore che il programma di Italia 1 “Le Iene” ha dedicato al caso (Scommettiamo che Rosa e Olindo sono innocenti?, 1 aprile 2023), non tanto per chissà quale “rivelazione” in sé (la maggior parte dei punti controversi sono stati già affrontati in diversi luoghi, da Radio Padania alla controinchiesta Il grande abbaglio di Felice Manti ed Edoardo Montolli) ma appunto per il cambio di paradigma che una parte d’informazione mainstream sembra aver adottato nei confronti dei “vicini assassini”.

Ricordiamo solamente che le stesse “Iene” nel 2007 andarono a tampinare l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio perché aveva ricamato (come tutti, dalla procura stessa ai grandi quotidiani) sulle ipotesi iniziali di una strage compiuta da criminali stranieri per questioni di droga, accusandolo di razzismo; e inoltre non andrebbe dimenticato che fu proprio Mediaset a proporre l’impresentabile ” docu-drama” I giorni dell’odio, girato in tutta fretta (una settimana!) prima ancora che il processo avesse inizio.

Giusto per ricapitolare, ciò che non torna nelle ricostruzioni che hanno portato alla condanna dei due coniugi (si consiglia in ogni caso, a chi sia totalmente ignaro della vicenda, di dare un’occhiata all’inchieste de “Le Iene” di cui sopra): la moglie del “supertestimone” Mario Frigerio (deceduto nel frattempo nel settembre 2014), Valeria Cherubini, secondo le sentenze di condanna, nonostante l’efferatezza dei colpi ricevuti si sarebbe dovuta trascinare al piano di sopra e chiamare aiuto (con la lingua tagliata e la gola squarciata) per spiegare come Rosa e Olindo fossero riusciti a scappare dalle scale prima dell’arrivo dei soccorritori; l’interrogatorio al “supertestimone” stesso, al quale il maresciallo ha ripetuto più volte il nome di Olindo prima che egli stesso lo pronunciasse e i cui interrogatori sono stati trasmessi in aula in modo velocizzato (“manipolati inavvertitamente tramite i software”) in modo che la frase “è stato uscendo” risultasse “è stato Olindo”; le modalità con cui sono stati condotti gli interrogatori dei due sospettati, con il neuropsicologo forense Giuseppe Sartori che identifica diversi fattori “predisponenti alle false confessioni” (l’esagerazione del valore probatorio delle prove d’accusa, il ventilare benefici processuali derivanti dalla confessione, la presenza di deficit cognitivi in entrambi i soggetti, l’aver messo a disposizione immagini della scena del crimine durante l’interrogatorio); infine, la famigerata “macchia di sangue” trovata nell’auto del Romano dopo una seconda ispezione, identificata e repertata in modo ambiguo, sulla quale lo stesso brigadiere che la fotografò ammette, con l’inviato de “Le Iene” (quando pensa di non esser ripreso), che solamente quella prova “non avrebbe mai mandato all’ergastolo” i due coniugi e che c’è persino la possibilità che essa sia frutto di contaminazione (anche alla luce del fatto che è l’unica traccia ematica riconducibile indirettamente ai due vicini assassini, per il resto totalmente “immacolati” da questo punto di vista).

Si diceva che tanti anni sono passati e tanti personaggi coinvolti nella vicenda sono venuti a mancare: a parte Mario Frigerio (del quale per nemmeno un istante si può ipotizzare la malafede) e il suo avvocato (scomparso improvvisamente all’età di 47 anni all’inizio del 2023), nel 2018 è deceduto anche il “patriarca” della famiglia Castagna, Carlo, noto imprenditore molto attivo (anche dopo la strage) in ambito sociale. In questo luogo vorrei però anche ricordare l’illustre criminologo Carlo Torre (1946–2015), che a titolo gratuito svolse il ruolo di perito della difesa nel caso, comunicando i suoi dubbi in un’intervista (forse troppo trascurata) a Radio Padania Libera del maggio 2011.

Si può notare l’attenzione posta dal perito sulla famigerata “tenda”, cioè il drappo che la signora Cherubini avrebbe afferrato prima di morire, e che secondo il professor Torre sarebbe caratterizzato da un taglio da coltello e non da strappo e presenterebbe “macchie da proiezione” e persino una ciocca di capelli distaccata, tutti segni che indicherebbero appunto che l’aggressione sia avvenuta nell’abitazione dei coniugi Frigerio. Alla sua proposta in aula di dare almeno un’occhiata a quella tenda, si è trovato di fronte a un muro. E nel frattempo anche questo reperto è andato letteralmente in fumo, insieme a molti altri gettati nell’inceneritore per ordine dell’Ufficio corpi di reato del tribunale di Como nel luglio 2018.

È interessante l’osservazione fatta dal criminologo riguardo la sua interpretazione iniziale del caso, che valutava “del tutto piano” poiché risolto da confessioni, in quanto porta a ragionare sul ruolo detenuto dai media nel rappresentare la vicenda. Un ruolo a dir poco ambiguo, dal momento che ci sono voluti anni prima che certi errori macroscopici emergessero anche nel dibattito pubblico.

Da tale prospettiva, non pare casuale che il pg che ha firmato la richiesta, il già citato Cuno Tarfusser, si sia in passato definito come “orgogliosamente fuori dal sistema”. Perché nella vicenda di Olindo e Rosa sembra davvero che si sia messo in moto un qualcosa di simile a un “sistema”: senza cedere a dietrologie, è come se il meccanismo giudiziario italiano (di per sé suscettibile di riforma, a partire dalla figura del Pubblico Ministero che finisce puntualmente per assumere il ruolo di “Grande Accusatore”) sia confluito in una sorta di apparato politico-mediatico il quale, piuttosto che fare da “controaltare” in un ideale equilibrio tra poteri, ha assunto, come si diceva, le caratteristiche di “sistema”. E dunque chi si permette di sollevare dubbi su una condanna basata su elementi fragilissimi (a partire dalle “confessioni”, ottenute nella maniera che sappiamo e poi “divulgate” in mondovisione in modo altrettanto scorretto), diventa in qualche modo assimilabile ai terrapiattisti.

È chiaro, peraltro, come tutta la faccenda non sia esente da risvolti politici: se inizialmente Radio Padania divenne quasi un “megafono” della difesa è perché la grande stampa aveva strumentalizzato il caso per veicolare un antirazzismo melenso (senza timore di portare a modello di integrazione il “vedovo di Erba” Azouz Marzouk, non uno stinco di santo ma che proprio in nome dell’antirazzismo “istituzionale” godette almeno di una difesa mediatica d’ufficio) e in seguito aveva tratto dallo stereotipo dei “vicini assassini” una cornucopia di inconcludenti teoremi socio-psico-politici per mettere sotto accusa il “padano medio” intollerante, troglodita, rozzo e segretamente assetato di sangue.

L’auspicio è che, col passare del tempo, certe posizioni ideologiche si siano stemperate: il cambio di approccio di una trasmissione di stampo vagamente “progressista” come “Le Iene” è un segnale positivo, nonostante il solo fatto di aver posto dubbi li abbia fatti subito ritornare allo status di “programma di Mediaset” (quindi guai giudiziari di Berlusconi, quindi garantismo peloso ecc…). Anche da ciò si evince come alla fin fine sia sempre la “parte migliore del Paese” a detenere le redini del “sistema”, e come nella maggior parte dei casi a finire stritolati dai suoi meccanismi siano in primo luogo gli innocenti.

PS: Sembra che sia in preparazione un altro documentario sul caso da parte di Netflix (spero non sia una trollata, perché è una cosa seria).

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