Non è il regionale veloce in sé a evocare quella strana alchimia di disagio e simbolismo, quanto il microcosmo umano che lo popola. Una sorta di esperimento sociale involontario, un laboratorio occulto dove la modernità si scontra con un declino che appare inarrestabile. I sedili consunti, l’aria stantia, il pavimento appiccicoso: tutto parla di un’era che ha perso il suo smalto. L’igiene è un’eco lontana che si riflette nei cestini traboccanti e negli odori che si mescolano in un miasma ineffabile. Il degrado fisico e umano che permea ogni carrozza non è casuale: è orchestrato da una forza invisibile, un’eco dell’antico bisogno di ordine trasformato in parodia satanica. Tutto appare come un’installazione rituale, un altare della decadenza dove l’uomo globalizzato espia le colpe collettive.
E poi ci sono loro, i viaggiatori: volti tirati, sguardi assenti, corpi che cercano spazio tra le maceria, un’umanità stanca, frammentata, assente. Le facce raccontano storie di periferie lontane, di violenze invisibili, di identità che si incontrano e si ignorano nello stesso momento. In questa massa di individui sconnessi, si avverte un richiamo al concetto di Volksgemeinschaft, la comunità del popolo, distorta in una pantomima: una collettività senza legami, un’unità costruita sull’indifferenza reciproca.
Qui, il concetto stesso di “composizione etnica” non è neutro; è un mosaico caotico, una testimonianza vivente di globalizzazione e disgregazione. Questa varietà suscita l’angoscia: l’impressione è che il treno non sia solo un mezzo di trasporto, ma una metafora del declino di una civiltà che fatica a riconoscersi.
Il parallelo con l’hitlerismo esoterico emerge quasi spontaneamente. Non tanto per un vago richiamo alle glorie passate, ma per l’idea di un ordine ormai perduto, di un rigore che si è capovolto nel suo opposto: un caos che si nutre delle sue stesse macerie. Qui non c’è più un’autorità centrale, ma un abbandono che appare altrettanto totalizzante. È come se ogni macchia sul finestrino, ogni sedile rotto, ogni urlo soffocato nell’aria fosse un segno di un degrado inevitabile, una lenta marcia verso un destino oscuro.
L’esoterico, in questo contesto, non è un accesso al divino, ma al grottesco. Ogni dettaglio del regionale veloce sembra suggerire un disegno nascosto, un complotto cosmico contro ogni concetto di decenza o progresso. Il richiamo all’ordine si è trasformato in disordine sistematico, e il viaggio diventa un’iniziazione forzata al nichilismo.
Eppure, lo scenario desolante conserva un fascino quasi perverso: viaggiare sul regionale veloce è come partecipare a un rituale segreto, un pellegrinaggio attraverso le rovine del presente. Ogni fermata è una stazione dell’inferno, un’occasione per osservare un frammento della grande dissoluzione contemporanea.
Forse il regionale veloce non è solo una metafora, ma un avvertimento. Un corso accelerato per capire dove siamo e dove stiamo andando. Non è un viaggio piacevole, ma è un viaggio necessario, perché solo attraversando il disordine possiamo sperare di riconoscere, almeno, ciò che abbiamo perduto.
Trenitalia macht frei.