Un videogioco insegna ai dirigenti d’azienda come licenziare i dipendenti

Nel 2019 l’azienda americana Talespin ha creato un videogioco (Barry) pensato per “addestrare” i dirigenti di azienda a licenziare: il gamer, indossato il visore, si trova alle prese con un proprio dipendente -per giunta sessantenne- programmato per reagire alla brutta notizia che gli verrà comunicata.

Se alcuni addetti alle “Risorse Umane” (e persino qualche manager) hanno trovato l’esperienza triste e imbarazzante, al contrario il direttore della Talespin si è entusiasmato di fronte alla sua stessa creazione: Barry mi pregava in lacrime di non licenziarlo, ma io ho continuarlo a cacciarlo via, ha dichiarato al Los Angeles Times ammettendo di averlo fatto almeno tremila volte.


Nel 2009 fa la Tiltfactor aveva avuto un’idea simile realizzando Layoff, videogioco nel quale un dirigente doveva licenziare il maggior numero di lavoratori per salvare la propria azienda sull’orlo della bancarotta. Gli impiegati scivolavano sul fondo alla griglia e finivano in coda all’ufficio di collocamento: ogni fila di liquidati faceva aumentare la possibilità di un finanziamento dalle banche.

In verità questo gioco, realizzato con la collaborazione della U.S. National Science Foundation, aveva lo scopo di “far riflettere” sul mondo del lavoro americano in tempi di crisi, ma evidentemente nessuno deve averne compreso il senso e i pochi che lo hanno provato avranno pensato a una versione  seriosa di Tetris.

Molto meglio Barry, dunque, specialmente per un mercato italiano che presto sarà alle prese con la fine del famigerato “blocco” e dovrà in qualche modo rendere i licenziamenti in massa che inevitabilmente giungeranno socialmente accettabili: se finora l’unica pensata è stata definirli “ristrutturazioni”, presto si porrà il problema di ribaltare un intero paradigma culturale. Si sarà infatti notato che nella cultura “alta” come in quella mainstream la questione è stata sempre affrontata dalla prospettiva del licenziato: esistono infiniti esempi a livello cinematografico, non solo in ambito europeo (specialmente francese e italiano) ma anche statunitense. Certo è surreale che un mercato come quello americano, così competitivo e poco “amichevole” nei confronti del lavoratore, sia accompagnato da un’arte popolare che riesce a esaltare il thymos di magnati e tycoon solo in maniera indiretta (come nelle figure dei supereroi-imprenditori), mentre al contempo moltiplica le testimonianze in favore degli “sconfitti”.

Ancor più paradossale che un’era come quella Obama, la quale ha coinciso con un sostegno informale a tale tipo di cinematografia, abbia poi prodotto risultati piuttosto modesti a livello politico rispetto a quella di un Trump che invece è stato uno dei pochi a spettacolarizzare il licenziamento dalla prospettiva del “licenziante”, come accaduto nel celebre reality show The Apprentice. La questione è forse più complessa di come si presenta e sicuramente questo non è lo spazio adatto per affrontarla, soprattutto ricordando che eravamo partiti da un videogioco. Tuttavia, si può almeno osservare, come diceva Marx (sì) che “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni” (Der Weg zur Hölle ist mit guten Vorsätzen gepflastert) e che non è probabilmente con la “denuncia” che verrà salvato un solo posto di lavoro.

È infatti il “cambio di paradigma” che andrebbe compreso fino in fondo, partendo forse proprio dalla disdicevole evenienza che chi confeziona pellicole strappalacrime sull’insensibilità dei “padroni” tutto sommato è ideologicamente affine a chi di fatto impone la ristrutturazione come imperativo categorico al mondo del lavoro. I democratici oltreoceano lo hanno fatto in nome della globalizzazione e dell’integrazione mondiale dei mercati; quelli italiani per l’europeizzazione, che ha comportato i processi paralleli di deindustrializzazione e “meridionalizzazione” del Bel Paese.

Perciò è in definitiva un po’ ingenuo indignarsi per prodotti come Barry, e non vedere come finirà tutta questa faccenda: mentre nasceranno sempre più start-up atte a offrire “pacchetti di servizi e strumenti” per facilitare la cosiddetta “flessibilità in uscita” e renderla meno “conflittuale”,  al contempo i fautori del disastro chiameranno le loro prefiche a girare l’ennesimo capolavoro sul “tagliatore di teste” aziendale che si riscopre gay o filantropo (tanto è lo stesso) e rinuncia a “flessibilizzare” e “ristrutturare” il poveraccio di turno. Solo nel recinto sempre più ristretto dello schermo, s’intende.

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