Mi sento un po’ in imbarazzo a dover dire la mia sulle elezioni americane, non tanto per il confronto con la ridda di esperti e politologi (pagati per mentire. fare il tifo oppure semplicemente non capire un bel niente), quanto per il flusso ormai incontrollabile di informazioni disponibili riguardo a questa tornata elettorale. Mi sembra che in effetti l’argomento abbia raggiunto un livello di integrazione nell’infosfera nazionale impensabile anche solo quattro anni fa: mentre nel 2016 le notizie arrivavano in “formato televideo”, ora sui social si possono avere dati e statistiche in tempo reale, oltre che naturalmente meme (direttamente dal profilo del Presidente ancora in carica).
Dunque, chi vincerà? Probabilmente Biden, ma forse Trump. In verità temo che in queste elezioni scopriremo che se quattro anni fa i democratici avessero candidato chiunque a parte la Clinton, avrebbero battuto Trump nella maniera schiacciante prevista dalle proiezioni. A tal proposito, il semplice fatto che ora non vengano sparati exit poll da 99,9 contro 0,01 (a favore naturalmente dei dem) può essere indicativo sia di una relativa serenità del mainstream, che non deve più gonfiare il consenso progressista in maniera isterica come ai tempi di Hillary, sia di un effettivo consolidamento della linea trumpiana che non sarebbe più tratto esclusivo della cosiddetta maggioranza silenziosa.
Perciò tutto tutto e niente niente. Sembra che Donald abbia la vittoria in tasca, ma non bisogna sottovalutare il fattore psicologico: ciò che offre Joe Biden, nelle vesti di nonno centrista in cerca di un lavoretto da fare in pensione, è fondamentalmente “quattro anni in meno di Trump”. In fondo, molte delle battaglie del tycoon sono diventate patrimonio comune della politica americana: il candidato democratico ha adottato persino slogan populisti durante la sua campagna, come Build Back Better e Buy American.
Il problema è forse proprio che Trump è davvero troppo politico: la fine della farsa del bipartitismo perfetto comporta uno sforzo cognitivo non indifferente per l’americano medio. Per la prima volta l’idea che “il sistema comunque funziona” non ha più quell’effetto narcotico che garantiva a un cittadino statunitense la possibilità di essere realmente impolitico. L’ex affarista ha trasformato tutto, paradossalmente persino l’economia, in politica (per non dire della tecnica, considerando la coda biopolitica da cui è stata caratterizzata la fine del suo mandato). Con Trump per la prima volta dal dopoguerra gli americani non sono più “dalla parte giusta della storia”.
Era questo il fattore psicologico a cui accennavo: gli elettori repubblicani avranno la tempra adatta e i nervi abbastanza saldi da sostenere il compito a cui li chiama il loro leader? Sinceramente ne dubito, ma tutto può ancora succedere. In fondo un Biden potrebbe benissimo inglobare il trumpismo nella sua proposta politica e dirottarlo in qualsiasi altra direzione. Anche l’idea che a un certo punto possa essere esautorato dalla sua vice se non formalmente (in base al famigerato 25 emendamento col quale peraltro Nancy Pelosi voleva deporre pure Trump) almeno nell’ambito delle scelte più importanti (come ha dichiarato Judd Gregg, governatore repubblicano del New Hampshire, anche il vecchio Joe farà probabilmente la fine delle statue tirate giù dai militanti di Black Lives Matter) non sembra preoccupare più di molto chi si appella alla normalcy a stelle e strisce. L’unica cosa che conta è che “il sistema torni a funzionare”.