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Viva il Rouge!

Esiste in Italia un certo feticismo, a volte inconfessato, nei confronti di Enrico Ruggeri; anche da queste parti lo coltiviamo assiduamente, ma non per quelle tendenze fighette emerse negli ultimi anni. A noi (a noi!) Ruggeri piace solo in quanto camerata immaginario: da questo punto di vista, è uno dei pochi che non delude mai. Nemmeno nell’ultima autobiografia, Sono stato più cattivo, dove non risparmia aneddoti scorrettissimi sulla Milano degli anni ’70, i “miliardari comunisti”, i compagni che lo minacciavano di morte e tutto il resto, roba che al confronto Francesco Storace sembra Nichi Vendola. No, a parte gli scherzi, ditemi se qualcuno, nonostante il grillismo, il “fuffarismo” e tutto il resto (userò l’espressione “e tutto il resto” diecimila volte in questa recensione) avrebbe ancora oggi il coraggio di scrivere cose del genere:

«Il programma di filosofia, superato Hegel, si concentrava su Carletto Marx, mentre Nietzsche e Schopenhauer non venivano nemmeno nominati. La disamina sulla letteratura italiana del Novecento, una volta liquidate le beghe tra pescatori di Giovanni Verga, era interamente concentrata sulle Lettere dal carcere di Gramsci: il futurismo e D’Annunzio, per i professori del Berchet, non erano mai esistiti. Il Movimento studentesco era l’unico organo riconosciuto che avesse potere decisionale, almeno fino all’entrata in scena di Avanguardia operaia (nome curioso, visto che tra i leader c’erano molti figli dell’alta borghesia milanese)» (p. 66-67).

Un camerata lo si riconosce a chilometri di distanza: non ti fa l’elogio dell’“impegno” anni ’70, non usa la jerga marxista per sembrare intelligente, è diretto come un punk polacco contro Gomulka. Non è questo peraltro l’unico passaggio che testimonia il cameratismo del Rouge; dopo poche pagine l’atmosfera si fa ancora più tesa:

«Per chi voleva suonare a Milano erano tempi duri: solo pochi mesi prima avevo assistito al Palalido all’assalto degli autonomi al palco di Lou Reed, accusato di essere nazista, dato che si vestiva di nero e aveva i capelli tinti di biondo (dimenticavano che era ebreo), e di lì a poco De Gregori avrebbe subito, sempre al Palalido, un vergognoso processo, accusato di essere una “emanazione della borghesia”. Il clima era quello. In quei giorni Sergio Ramelli veniva ucciso a sprangate per un tema non gradito che era stato esposto nella bacheca della sua scuola. Non aveva ancora compiuto 19 anni» (p. 73).

Sergio Ramelli! Anche “Il Secolo d’Italia” se n’è accorto: Ruggeri cita d’Annunzio e Ramelli. Ma ’sti cazzi, e Morsello ve lo siete dimenticato oppure non avete finito di leggere il libro? Nelle ultime pagine, il Nostro non si vergogna di ricordare una storia dimenticata da anni (gli ultimi a parlarne furono nel lontano 2003 Lanna e Rossi in Fascisti immaginari), ovvero i suoi rapporti con “Massimino” Morsello, dai giornali conosciuto come il “De Gregori nero” (da non confondersi con Morselli Demo, che compare in Enrico VIII – anche lui un camerata, credo):

«Venni invitato da MTV Europa in un castello nel Leicestershire per registrare un piccolo special (erano ancora anni in cui MTV si occupava di musica e non del testosterone dei ragazzini). […] Prima di tornare a casa mi raggiunsero dei ragazzi italiani che avevano una proposta da farmi: volevano organizzare tre concerti a Londra, all’Hammersmith Palais, la sala più piccola del mitico Hammersmith Odeon. Ovviamente non aspettai nemmeno che finissero di parlare. Uno di loro, però mi avvertì: “Prima di darmi una risposta è bene che tu sappia chi sono io. Mi chiamo Massimo Morsello e ora vivo qui. Ho avuto problemi con la giustizia italiana, sono stato un militante di destra. Mi piaci come artista e non ho nessuna intenzione di strumentalizzarti”.
La sua franchezza mi piacque: “La musica non ha colore” gli risposi, “e chi ama la mia musica è mio amico. Mi devi solo promettere che il concerto non sarà occasione di propaganda: niente scritte, bandiere, vessilli. Non devi mettermi niente per iscritto, mi basta la tua parola d’onore”.
I concerti vennero fissati per la metà di giugno. Pochi giorni prima partirono attacchi furibondi da parte di alcuni giornali, primo fra tutto “l’Unità”. I titoli erano del tipo: Ruggeri a Londra con i fascisti. I miei manager tentarono di convincermi a rinunciare, mi procurarono in certificato medico, mi dissero che in un periodo già delicato la mia scelta avrebbe potuto compromettere la mia carriera. Io però avevo dato la mia parola, e io per mantenere la mia parola posso anche rischiare la vita. Erano discorso che ovviamente loro non potevano capire, ma non cambiai idea.
[…] Ebbi anche modo di conoscere meglio Morsello, una persona di grande spessore umano. Rimanemmo in contatto. Quando fu prosciolto dalle accuse tornò in Italia, stava combattendo contro un tumore che lo avrebbe ucciso. Parlammo a lungo della morte, evento al quale si stava preparando» (pp. 218-220).

La parola d’O N O R E, capite? Onore! Per non dire dell’accenno a MTV, che in cauda venenum diventa una rete “filo-americana” che si rifiuta di trasmettere Nessuno tocchi Caino poiché dedicata a Leroy Orange, «un uomo che dopo aver ingiustamente trascorso diciannove anni nel braccio della morte era stato graziato dal governatore dell’Illinois».

Più di così, non si può. Tutto intorno non resta che il rumore dei nemici (Ruggeri cita anche Mourinho…), e l’unica cosa che chiede il Nostro è di poter ancora «respirare il rancore e l’invidia dei perdenti». No, non è la solita sbobba autobiografica che il cantante italiano propina ai suoi fan, giusto perché si accapiglino su questioni da pederasti, come chi ha inventato quel memorabile accordo oppure chi ha prodotto quell’enigmatico rumore in sala di registrazione. Qui siamo a un livello superiore, e persino le frasi fatte nell’insieme acquistano un taglio provocatorio, di sfida aperta. Per esempio, “La musica non ha colore” (v. supra) avrebbe potuto dirlo anche quel tale affetto da sigmatismo (no, non Vendola, quell’altro che canta), davanti a un giovane artista senegalese che alterna allo spaccio qualche colpetto sui bonghi; di certo non al cospetto di un Morsello che canta Sul cemento un fiore nero nascerà

Una nota conclusiva: nel volume non si è parlato di Vecchia Europa, la canzone che negli ultimi anni di inutili carneficine tra Parigi, Londra e Berlino, è diventato il nostro Palästinalied; il Rouge ne accenna indirettamente chiamando in causa la strofa in latino di A Song for Europe dei Roxy Music, che a sua volta ha ispirato l’inossidabile Tenaxdi Diana Est: «Decisi che sarebbe stato divertente far ballare i ragazzi con la lingua più contestata, considerata un inutile retaggio del passato» (p. 141)

Anche per questo, Viva il Rouge!

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