La polemica sull’Armia gwałcicieli, l’“esercito di stupratori” sovietici che durante la Seconda guerra mondiale violentò centomila donne polacche, torna periodicamente nel dibattito pubblico nazionale.
L’ultimo caso in ordine di tempo è stato sollevato dalla rivista “Historia bez cenzury” (aprile 2017), che ha messo in copertina un soldato dell’Armata Rossa dai tratti incredibilmente simili a quelli di un noto politico russo contemporaneo:
La scelta ha ovviamente un po’ indispettito i kacapy, ma in realtà l’editoriale non aggiunge granché alla polemica: si ricorda la scultura Komm Frau di uno studente dell’Accademia delle Belle Arti, che ritrae una donna incinta violentata da un soldato russo mentre le punta una pistola in bocca, esposta nel 2013 nella strada principale di Danzica ma rimossa immediatamente dalle autorità polacche (che arrestarono pure l’artista); vengono anche rievocati il film Una donna a Berlino del 2008, basato sull’omonimo memoriale, che racconta gli stupri di massa nella Germania occupata dai russi, e la serie televisiva Le nostre madri, i nostri padri, in italiano incomprensibilmente tradotta col titolo di Generation War. Tra le testimonianze più conosciute di quel periodo, si cita quella di Hannelore, prima moglie di Helmut Kohl, a dodici anni stuprata ripetutamente dagli uomini dell’Armata Rossa (che poi la gettarono da una finestra) e morta suicida nel 2001.
Infine, in cauda venenum, si avanza una delle accuse più disonorevoli per l’esercito sovietico, ovvero quella di aver violentato le donne polacche non per vendetta (come fecero, oltre che con le tedesche, con le estoni, le lituane, le ungheresi, le romene, le cecoslovacche), ma come “risarcimento” per l’impegno messo nel “liberare” il Paese.
I russi, non potendo contestare più di tanto certe accuse (anche se negli ultimi anni ci sono stati tentativi di revisionismo), si impuntano non a torto sull’utilizzo di un’immagine ispirata direttamente dalla propaganda nazista:
In verità non è la prima volta che accadono questo tipo di “incidenti”, e presumibilmente non sarà nemmeno l’ultima. Un criterio che dovrebbe essere riconosciuto e rispettato da entrambe le parti è quello stabilito dal regista cinese Mou Tun-fei, che al suo Men Behind the Sun, una pellicola splatter sui tragici esperimenti condotti sulla popolazione dagli occupanti giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, pose in esergo il motto Friendship is friendship; history is history, in risposta al governo cinese che voleva censurarlo per non compromettere i rapporti con Tokyo.
L’amicizia è amicizia, la storia è storia: solo così forse potremmo sperare di risvegliarci da quell’incubo che continuiamo appunto a chiamare storia.