“Vogliamo i figli di puttana!” Sul golpe in Turchia

Per celebrare il fallimento del golpe militare e la vittoria delle forze democratiche in Turchia, oggi mi concederò il lusso di non leggere giornali né assistere ai vari “speciali” televisivi. Già ieri sera seguendo fino a tarda notte Rai e Sky sono andato in overdose di coglionerie (anche perché quando la rete nazionale TRT Türk ha ripreso le trasmissioni mi sono addormentato); per il momento ne ho avuto abbastanza [*].

I giornalisti possono scrivere quello che vogliono, probabilmente qualcuno avrà già trovato il modo di accusare Erdoğan di essersi fatto un autogolpe per aumentare il proprio consenso. Tuttavia il loro capodanno fantozziano è finito per l’appunto in anticipo, e ora dovranno farsene una ragione (tutti gli altri invece continuino pure a coltivare quel nuovo ramo della letteratura fantastica che è la geopolitica).

In realtà questo evento conferma tutte le paranoie degli ultimi mesi (e anni) del leader turco, che col senno di poi non aveva torto nell’insistere a tutti i costi per una riforma presidenzialista (io l’ho criticato per essersi sbarazzato di Davutoğlu, ma a dirla tutta è infinitamente preferibile qualsiasi “golpe di palazzo” rispetto alla solita sortita militarista).

In ogni caso sarà difficile capire come sia andata realmente: l’unica cosa certa è che questo bubbone prima o poi doveva scoppiare. Non sembra assurdo credere che le formazioni golpiste abbiano agito approfittando del caos creato dall’attentato di Nizza: del resto a prendere l’iniziativa sono stati i gradi inferiori, senza l’appoggio dei generali.

Anche l’atteggiamento degli Stati Uniti, da un iniziale “attendismo” durato qualche ora a un risoluto appoggio al “governo democraticamente eletto”, dimostra l’approssimazione con cui i militari si sono mossi. Certamente qualche amico americano avrà fatto il tifo per i colonnelli, come rivela la dichiarazione dell’ex ambasciatore all’ONU John Bolton (“Se Erdoğan prevarrà ci sarà un’accelerazione dei tentativi di islamizzazione da egli già messi in atto”), ma pare che ai piani alti abbiano avuto l’intelligenza di non aprire un nuovo fronte o scatenare un’altra guerra civile. Comunque è evidente che dalle parti di Washington il presidente turco non è molto amato, non solo per la recente riconciliazione con la Russia, ma anche per il ruolo di Ankara all’interno della NATO: Erdoğan ha più volte fatto capire che è finito il tempo in cui la Turchia veniva considerato il “parente povero” dell’Alleanza.

Perciò sembra alla fine che gli unici ad aver sperato fortemente in questo golpe, a parte uno sparuto gruppo di colonnelli che pare abbia preso ispirazione dal famoso film con Tognazzi, siano stati proprio gli italiani. Non solo i giornalisti, purtroppo (che almeno sono pagati per mentire), ma anche persone che all’apparenza sembravano normodotate. Penso che per molti sia arrivato il momento di farsi un esame di coscienza: da dove nasce tutto questo feticismo per i “colonnelli” altrui? Che senso ha spellarsi le mani quando un Paese viene trasformato in una caserma o in una prigione? Si tratta solo di Schadenfreude? Oppure, sempre per usare paroloni tedeschi, di Selbsthass (la turcofobia come estensione dell’auto-razzismo italiota oltre i confini nazionali)?

Inutile richiamarsi al realismo: la politica dei “figli di puttana”, per prendere a prestito l’espressione con cui Roosevelt definì il dittatore nicaraguense Somoza, non ha proprio nulla della Realpolitik invocata dagli analisti d’assalto. È un metodo odioso che guarda caso mai accetteremmo di saggiare sulla nostra pelle (credo nemmeno se al governo ci fosse l’odiato Silvio): anche in questo, lo ammetto a malincuore, il popolo turco ha dimostrato una dignità infinitamente superiore a quello italiano. Invece di accogliere in lacrime i “salvatori della patria” per antipatia verso Erdoğan, i turchi hanno difeso la democrazia tutti assieme: è una grande prova di civiltà dalla quale dovremmo prendere esempio (almeno per rispetto delle centinaia di morti e feriti).

Per quel che mi riguarda, dopo un’iniziale ritrosia a contattare i miei amici di Istanbul, poiché conosco la loro riservatezza, nonché una certa insofferenza verso la “spettacolarizzazione” di qualsiasi evento politico, mi sono deciso infine a sentire sia gli “erdoganiani” che i “kemalisti”. Mi ha fatto piacere udire nuovamente queste voci simili a miagolii, questa lingua che assomiglia a una serie di equazioni sussurrate. Mentre i simpatizzanti dell’AKP si sono dimostrato ovviamente tranquillissimi, «Neden korkuyorsun? Hiçbirşey olmayacak! Cumhurbaşkanımızın yanındayız!» [“Di che ti spaventi? Non succederà nulla! Noi stiamo col nostro Presidente!”], da parte dei “kemalisti” (il termine è ormai abusato, ma credo si possano definire così quelli con le gigantografie di Atatürk in casa) ho invece percepito un’inedita apprensione. Addirittura un’amica, evidentemente agitata, dopo avermi detto una frase che difficilmente riuscirò a dimenticare, «Bizde seni kendimizden biri olarak görüyoruz» [“Noi ti consideriamo come uno di noi”], mi ha invitato a pregare per loro («Bizim için dua et»). Concedetemi un pizzico di vanagloria. Sonu iyi biten herşey iyidir. [**]

L’avversione diffusa per la “soluzione golpista” potrebbe essere un indice del fatidico spirito dei tempi: questi militari sembrano in effetti spuntati dalle tenebre degli anni ’70, con addosso quella puzza di ciclostilato e di mandorle amare che in Italia qualcuno aveva fiutato nei pressi di Piazza Fontana. Se avessero preso il potere, la Turchia sarebbe ritornato un Paese povero, semirurale, insignificante dal punto di vista politico e culturale. Chissà quali “cure”, dopo il “golpe democratico” (così i giornali definirono l’avvento al potere di Al-Sisi in Egitto) avrebbero dovuto sperimentare i turchi: arresti, torture, fucilazioni, coprifuoco… Evidentemente non hanno gradito la gentile offerta di salvarsi dall’islamizzazione (o dall’ottomanesimo, o dal sultanismo), e hanno provveduto a respingere i figli di puttana al mittente.

[*] Mi ero ripromesso di non leggere i giornali, ma questa merita un accenno: Antonio Ferrari del “Corriere” è riuscito a sostenere nello stesso giorno e sullo stesso quotidiano due tesi contrapposte: nel primo articolo, Lo Stato laico e le mani dell’esercito, dopo aver elogiato tra le righe gli “amati militari”, ha paragonato Erdoğan a “un Ceausescu anticomunista” e gli ha augurato di fare la stessa fine; nel secondo pezzo, un’intervista (Chi c’è dietro il “golpe fasullo”), ha avanzato invece la tesi dell’auto-golpe, vantando “fonti credibili e preziosissime” che gli avrebbero suggerito l’idea della “sceneggiata”. Questo è il giornalismo italiano (purtroppo c’è chi è riuscito a far di peggio, ma stendiamo un velo pietoso).

[**] Vorrei precisare che questo “campione” decisamente esiguo, essendo composto solo da otto persone, ha comunque un certo valore rappresentativo, nello stesso modo in cui lo avrebbe avuto il parere di un lettore de l’Unità riguardo all’incarico di Presidente del Consiglio conferito a Mario Monti nel 2011.

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