Il diario di uno stupratore a cui si fa riferimento in questa recensione non è la celebre opera dello scrittore der Kansas City Evan S. Connell (The Diary of a Rapist, 1966), ma un romanzo “minore”, scritto da una certa Anna Maria Pellegrino ed edito nel 1992 da Mondadori.
Luca è un ragazzo di circa vent’anni, studente fuori corso che vive con la madre vedova e lavora (a nero) in una tipografia. Si descrive come “un giovane stupido, che lavora, che a ballare non allunga le mani, ma solo per timidezza”, “uno di quei ragazzi buoni, magari un po’ troppo semplici e ingenui, che popolano le strade e di cui le donne non si accorgono se non per farsene degli amici servizievoli”.
La sua esistenza è mediocre e priva di prospettive, ma a renderla particolarmente insopportabile è il rapporto con l’altro sesso: un’esperienza colma di crudezze, dalla ragazza che lo invita a uscire solo per “ingelosire un tizio che lavora al fast-food” a quelle fidanzate che se incontrano “uno che gli piace se lo fanno anche la sera stessa, perché si ritengono libere di agire come vogliono”.
La mancanza della femmina si trasforma in un’ossessione (“Prima era soltanto un desiderio… adesso è un’esigenza. Non vivo che per quello”), che lo porta all’extrema ratio dello stupro: comincia una discesa verso il sadismo e la follia. L’Autrice stessa, che nei primi capitoli del Diario prende alla leggera il suo personaggio e lo tratta anche lei da sempliciotto (“Uno come me che non ha nemmeno uno straccio di donna, che cazzo ci farebbe in un romanzo?”), con il precipitare della sua tragedia morale e sentimentale riesce a farne un carattere a metà strada tra un bad boy d’abisso e un ridicolo amante à la Buzzati (anche se l’ispirazione principe è apertamente kunderiana).
Diario di uno stupratore (dal quale peraltro è stato tratto un film, Cronaca di un amore violato, che come al solito non ha nulla a che fare col libro), è un’opera al contempo talmente semplice e complessa da risultare enigmatica: nonostante lo stile sia elementare e a tratti colloquiale, il ritratto psicologico del protagonista possiede una profondità inedita rispetto ai classici anti-eroi.
È un uomo che soffre per l’indifferenza che nutrono le donne nei suoi confronti, ma mettendosi anche d’impegno non riesce proprio a divenire “trasparente”, a confinarsi nella categoria dei “maschi innocui”, dei “bravi ragazzi”. E se da una prospettiva generale l’intento moralistico della Pellegrino risulta evidente, tuttavia esso non interferisce mai con il racconto intimo delle sofferenze e dei misfatti attraverso il quale lo stupratore conduce il lettore nelle sue tenebre.
Anche la questione femminista è sorprendentemente latitante nel romanzo, se vogliamo escludere qualche espressione di superomismo del protagonista (“Qui comando io, qui non sei più una figa che dice: questo sì e questo no”) che più che al “maschio sciovinista” sembra rimandare alle paranoia di un immaginario nazionale ancora in balia degli assassini di coppiette.
Lo stupratore, del resto, seppur ridotto a quest’unica caratteristica, vive comunque di vita propria, esce dai confini della “violenza patriarcale” e finisce addirittura per “riscattarsi” sposando l’ultima ragazza che è riuscito a violentare senza farsi riconoscere. A meno che questo “lieto fine” poco credibile e quasi surreale non sia un modo per dissacrare l’immagine del “cavaliere”, che dall’ottica disincantata dell’Autrice salverebbe le donzelle solo perché vorrebbe farsele tutte lui.
Come afferma l’amico del cuore di Luca, Marcello (il quale ignora totalmente la sua brutta abitudine):
“Per quanto scrivano i giornali e urlino le femministe nei cortei […] la donna sarà sempre proprietà di qualcuno, ed è in questa legge stupida, ingiusta e anacronistica, ma vera come tutte le leggi che regolano la natura, che la donna trova anche i suoi vantaggi. La protezione, per esempio”.
Ecco l’enigma a cui si accennava: una narrazione ambigua che non aspira a stabilire netti ma a porre (con un distacco di cui forse uno scrittore uomo non sarebbe stato capace) la sofferenza del carnefice sullo stesso piano di quella delle vittime. “Non odio le donne”, confessa lo stupratore, “mi comporto con loro come loro si comportano con gli uomini. Tutto qui. Sarebbe come se gli animali si mettessero a dare la caccia agli uomini”.
A ciò vanno sommate una serie di osservazioni (sul “tirarsela” delle donne italiane, la disoccupazione giovanile, il sessantotto eccetera) che forse all’epoca potevano suonare come luoghi comuni ma che per la sensibilità corrente (ed è passata “solo” una generazione) sono diventate politicamente scorrette. Questo porta infine a chiedersi se un libro del genere, che per quanto provocatorio non ha lasciato alcuna traccia di sé, oggi riuscirebbe perlomeno a trovare un suo spazio nel panorama editoriale: col senno di poi, la risposta probabilmente sarebbe negativa.
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