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Giorgia Meloni e il Melting Pot

(fonte)

Come continua pervicacemente ad affermare Giorgia Meloni persino nel suo ultimo libro-intervista con Alessandro Sallusti, la promozione dell’immigrazione ha come primo obiettivo ciò che lei ha definito in passato “sostituzione etnica” e ora chiama melting pot. Per citare un passaggio del volume:

«L’immigrazione illegale di massa è uno degli strumenti principali della guerra contro le identità. Non è un caso che le campagne immigrazioniste della sinistra siano rivolte esclusivamente a un’immigrazione extraeuropea, quando anche in Europa ci sono persone che vivono in una condizione di povertà paragonabile a quelle di molti africani.
Sapevi che la Moldova (sic), ad esempio, ha un reddito pro capite inferiore a quello di gran parte dei Paesi del Nord Africa? Eppure non ho sentito nessuno stracciarsi le vesti per favorire l’immigrazione moldava. E ti sei chiesto perché? Perché il moldavo, in quanto europeo, è troppo affine alla nostra cultura. E, dunque, non è funzionale al disegno del cosiddetto melting pot, cioè di mescolare il più possibile per diluire. E molto più funzionale a questo disegno il migrante africano. E poco importa se il migrante africano o mediorientale o dell’Asia centrale e meridionale rischia di integrarsi più difficilmente. Perché anche qui, c’è un possibile beneficio occulto per le grandi concentrazioni economiche: più avrai difficoltà a integrarti, più accetterai condizioni di vita e di lavoro precarie, creando inevitabilmente una competizione al ribasso. In sintesi, la domanda che voglio fare è questa: non è che chi spinge per una immigrazione di massa e incontrollata solo da alcune aree del mondo ha due obiettivi occulti, cioè snaturare l’identità delle nazioni e rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori?».

Si tratta di una analisi che non si può ridurre al “complottismo”: i partiti, le congreghe, i circoli e le agenzie culturali, fino alle organizzazioni religiose o “filantropiche” continuano a rilanciare, con retoriche e metafore differenti, la necessità di “diversificare” il tessuto etnico-culturale-religioso dell’Europa o più in generale dell’Occidente, indipendentemente da qualsiasi “Piano Kalergi” si possa invocare contro o a favore.

Quindi, sulla breve distanza, qualsiasi soluzione venga proposta come alternativa al famigerato blocco navale, all’affondamento dei barconi (ovviamente vuoti…) e all’espulsione immediata dello straniero (perché la questione non riguarda solo i “salvati”, cioè gli sbarcati, ma anche i “sommersi”, cioè le fantomatiche “seconde generazioni”), è nella migliore delle ipotesi frutto di un fraintendimento, e nella peggiore un alibi al lassismo.

Giusto per fare qualche esempio: a cosa servirebbe, in quanto italiani, recarsi in massa a svolgere i fatidici “lavori che gli italiani non vogliono più fare” nel momento in cui tale iniziativa non scalfirebbe di nulla il progetto di ingegneria sociale a monte del fenomeno? E anche la provocatoria proposta, emersa negli ultimi tempi, di cedere Lampedusa alla Francia o all’Africa, non cambierebbe alcunché: in tal caso l’isola inizierebbe a godere dello stesso status di cui ora godono Malta o Gibilterra, e i “barchini” si riverserebbero su qualsiasi altra costa potesse nomarsi italiana.

Anche la Meloni, peraltro, sembra soffrire di “benaltrismo” quando avanza l’idea che dietro l’immigrazione di massa ci sia anche l’obiettivo di “rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori”, ma al contempo poi chiama in causa un ipotetico “moldavo” che dal punto di vista dei diritti, per quanto “europeo” (in verità considerato extracomunitario dalla stessa Ue, posto che in Moldavia -e non Moldova-, hanno cittadinanza anche “europei” di origine turca o russa) è difficile si metta a questionare sul salario più di un bengalese o un nigeriano.

A dimostrazione che la questione riguardi interamente il cosiddetto melting pot, si possono segnalare le polemiche nei confronti delle recenti dichiarazioni dell’assessore ai flussi migratori Cristiano Corazzari e dell’assessore al Lavoro Elena Donazzan della regione Veneto, che hanno proposto di far tornare gli oriundi di tutto il mondo a lavorare in Italia. È un’idea che emerge regolarmente, e regolarmente viene censurata in tutti i modi, perché, sempre come sostiene la Meloni, c’è troppa “affinità” tra questo tipo di migranti e la società in cui dovrebbero essere accolti. E perciò nemmeno il tentativo di mettere un’ipoteca politica sull’immigrazionismo potrebbe servire a scongiurare il problema che è, ripeto, il melting pot.

Per comprendere pienamente ciò di cui stiamo parlando, dobbiamo risalire alle origini dell’espressione Melting Pot: a coniarla nel 1908 fu l’ebreo britannico Israel Zangwill, come titolo di una sua opera teatrale dedicata all’epopea di una famiglia ebrea russa immigrata negli Stati Uniti. Il protagonista di essa, David Quixano, sopravvissuto a un pogrom (la Shoah dell’epoca), esprime la speranza che tutte le etnie si “sciolgano” (melting) in un unico “crogiuolo” (pot) rappresentato letteralmente da Ellis Island, il porto dove si riversa il “carico umano” di “celti e latini, slavi e teutoni, greci e siriani, neri e gialli, ebrei e gentili, Est e Ovest, e Nord e Sud, la palma e il pino, il polo e l’equatore, la mezzaluna e la croce“:

«Il Grande Alchimista li scioglierà e fonderà con la sua fiamma purificatrice! Qui tutti si uniranno per edificare la Repubblica dell’Uomo e il Regno di Dio».

Ecco come si può dunque affrontare eventualmente il problema da una prospettiva più ampia: rendendosi contro che ci troviamo al cospetto dell’alchimia, del classico Solve et Coagula, declinato in senso etnico-culturale (o come si vuol dire), ma che potrebbe procedere anche attraverso altri mezzi (e solo qui potrebbe starci bene un po’ di “benaltrismo”).

Per riferirsi ancora all’opera di Zangwill, anche l’ebreo assimilato da generazioni potrebbe essere suscettibile di rappresentare un “altro” potenzialmente in grado di “disintegrare” (in senso lato) la società a cui appartiene. E al di là del Melting Pot, il ruolo che attualmente viene fatto assumere alle masse afro-arabo-asiatiche potrebbe esser tranquillamente interpretato (come del resto è accaduto in passato) dalle femministe, dagli omosessuali, dai disabili o da qualsiasi “barbaro verticale” utile a distruggere il logos in favore del chaos.

In conclusione, una politica che volesse realmente contrastare l’immigrazione dovrebbe rendersi conto della natura metapolitica del fenomeno, che più che nella filantropia o nell’umanitarismo sfocia direttamente nella magia e nell’occultismo.

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