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Il Calasso dai piedi d’argilla

Stimolato da una recensione di Marco Belpoliti (Roberto Calasso, terroristi e turisti, “Doppiozero”, 22 Settembre 2017), ho deciso di concedere una seconda lettura a L’innominabile attuale di Roberto Calasso: rispetto alla prima impressione, devo ammettere di averlo trovato se possibile ancora più lugubre e sconclusionato.

Riprendiamo quindi il filo della discussione precedente, prendendo spunto dal pezzo di Belpoliti. In primo luogo riconosco al critico un certo coraggio: non è mai facile parlare di un libro dell’editore-scrittore, tanto che i curatori delle Terze pagine di regola preferiscono nascondersi dietro in un profluvio di elogi sperticati e furbetti (“Com’è profondo”, “Scrive molto bene”, “Ma quante ne sa?”), magari citando qualche riga (o parola) dalle due pagine che sono riusciti ad addocchiare Non è un caso che ancora oggi gli unici giudizi significativi espressi su un volume calassiano siano rimasti quelli di Italo Calvino riguardanti La Rovina di Kasch (il che lascia supporre che l’ultima vera recensione il Nostro l’abbia ricevuta più di trent’anni fa).

Per entrare subito in medias res, partiamo dall’analogia tra turismo e terrorismo, così insistentemente suggerita da Calasso e presa dal critico come buona. Prima di discuterne, è necessario però risalire a quell’altro parallelo tra terrorismo e pornografia, stabilito dall’Ineffabile nelle prime pagine del volume:

«Nello stadio ultimo della sua formazione, il terrorismo islamico coincide con la diffusione della pornografia in rete, negli anni Novanta. All’improvviso si trovarono davanti agli occhi facilmente e perennemente disponibile, ciò che avevano sempre fantastico e desiderato. E che al tempo stesso svelleva l’intero assetto delle loro regole riguardo al sesso. Se quella negazione era possibile, tutto doveva essere possibile» (p. 15).

E Belpoliti rincara la dose, evocando le inossidabili tre P:

«Negli anni Settanta, agli albori del terrorismo di sinistra, della lotta armata, Pier Paolo Pasolini aveva indicato […] proprio nell’eccesso di libertà sessuale la causa del terrorismo stesso. […] Con il suo tono icastico e insieme apocalittico Calasso scrive che la risposta dei giovani islamici alla pornografia in rete sarebbe stata: andare “oltre”. Aggiunge: “di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato”».

È una coincidenza singolare che, proprio nel momento in cui mi trovavo a meditare su tali passaggi, nell’etere risuonasse la notizia della scomparsa di Hugh Hefner. L’esempio, in effetti, casca a fagiuolo: è innegabile che con la sua attività, l’editore (sì, anche Hefner era editore!) abbia, in modo consapevole o meno, riportato la nascente rivoluzione sessuale (improntata all’iconoclastia e al nichilismo) verso canoni di bellezza tradizionali, in un contesto che potremmo definire “pseudo-barocco” nella misura in cui è controrivoluzionario e anti-apocalittico o –per dirla con Belpoliti– penultimo. In pratica tutto il contrario del concetto di “terrorismo estetico” che affiora nel pamphlet di Calasso; viceversa, un’antitesi perfetta alla morte dell’immagine (del resto non sono il primo a indicare la pornografia come l’unica “arte sacra” che possono permettersi i puritani).

Prima di chiarire definitivamente questo punto, devo risalire ancora più indietro, a un altro passaggio de L’innominabile attuale in cui Calasso fa della pornografia il tertium comparationis fra terrorismo e turismo:

«La convergenza delle culture verso l’unità si verifica nel turismo e nella pornografia. Sono mondi paralleli, dove vigono regole simili. Massima riduzione nel repertorio dei gesti e delle azioni formalizzate. Minime differenze negli abbigliamenti e negli arredamenti. Tendenziale abolizione dei preamboli e delle diramazioni narrative» (p. 67).

Lo scopo di questo “gioco al rialzo” (pornografia = turismo = terrorismo) appare duplice: da un lato sfumare le responsabilità culturali, sociali e politiche (cosa che Calasso non aveva fatto nel suo famigerato editoriale per il “Corriere”), istituendo una correlazione inesistente tra Playboy, il Club Med e l’Isis; dall’altra, inserire il “terrorismo secolare” (formula infelice, non avrà successo) nella tetra liturgia che Adelphi va elaborando da anni. Il terrorismo come “ritorno del sacro”, o “del sacrificio”, o di qualcosa del genere: una tesi da far accapponare la pelle, che però nessun progressista si permetterà di contestare, ormai troppo istupidito dal conformismo per avanzare qualsiasi critica al “Venerato Maestro”.

Lo scopo di Calasso è quello di privare di qualsiasi dignità “mediatrice” la dimensione ludica del nostro tempo, equivocando a bella posta la sua natura per introdurla appunto nel proprio “schema sacrificale”: senza neppure rendersene conto, sta mettendo in atto l’ennesimo espediente per occultare ancora “l’innominabile attuale”, che non è ovviamente Donald Trump (come giunge a ipotizzare, senza tema di ridicolo, lo stesso Belpoliti), ma l’impossibilità di fuggire alla mediazione.

Il bersaglio polemico di Calasso, in sostanza, è il sistema binario, cioè la possibilità che tutto l’esistente possa essere ridotto alla combinazione di 0 e 1; gli strali dell’Autore contro la “modernità” puntano infatti in quella direzione: «Il mondo si sta assoggettando a una procedura di codifica universale e onnilaterale» (p. 37); «Bentham scoprì [che tutto poteva essere misurato] se lo si rapportava all’utilità. Quanto all’utilità stessa, poteva essere misurata in denaro» (p. 41); «La società prende se stessa come oggetto che ormai ingloba tutto, grazie a quell’arma invincibile che passa sotto il nome di tecnologia» (p. 52); «Il mondo intero è diventato un settore attardato del turismo» (p. 70); «L’idea dell’espansione planetaria dell’Occidente […] [è] un progetto sottoposto da Leibniz [ai] potenti della terra […] [attraverso] la numerazione binaria» (p. 71) ecc. ecc.

Contro questa “società secolare-umanista”, autosufficiente e sovrana, insorgerebbero «il cristianesimo dei primi secoli o l’islamismo fondamentalista di oggi» (p. 51) –ennesimo parallelo disturbante– a mantenere vivo «il fuoco sacrificale» (p. 23). Non credo ci sia bisogno di evidenziare quanto tale dicotomia sia artefatta, e come attraverso di essa si corra persino il rischio di “sacralizzare” un’assurda violenza, la quale pare suscitare un certo fascino su Calasso se egli per descriverla talvolta cede agli stilemi del “banditismo romantico” («Gli assassini-suicidi riconducono a Osama bin Laden nelle caverne di Tora Bora, che riconduce a Hasan-i Sabbah nella fortezza di Alamut», p. 20).

Questa falsa contrapposizione infine ci riporta ancora al tema della “mediazione”. Sostiene sempre il Maestro (e qui si può apprezzare come riesca a contraddirsi nel giro di due frasi):

«La secolarizzazione è, in primo luogo, allentamento dei vincoli – di qualsiasi vincolo. E, in certi casi, cancellazione dei vincoli stessi. a parte il rispetto dei codici, che implica l’osservanza di un ordine» (p. 44).

E ancora:

«Le procedure hanno preso il sopravvento sui rituali» (p. 46).

Calasso è deciso a sostenere fino all’estremo una dualità (vincolo/codice, rituale/procedura) che non ha ragion d’essere, se pensiamo soltanto che il buon Kojève poteva addirittura “sigillare” la fine della storia con la “formalizzazione totale” che aveva riscontrato nella società giapponese.

Ma forse sto “problematizzando” troppo; per tagliar corto, veniamo al turismo, definizione ipostatizzante con cui gli ignari villeggianti finiscono sul banco degli imputati come manifestazione suprema della disintermediazione. Belpoliti tiene bordone a Calasso confondendo turismo e nomadismo, ma nel farlo propone esempi di “deterritorializzazione” che in realtà gli si ritorcono contro:

«Un gruppo di uomini e donne seduti nella sala di aspetto di un aeroporto, in attesa di salire su aereo di linea e di dirigersi nel medesimo luogo, da cui poi dipartirsi verso ulteriori e differenti mete, non è davvero nel medesimo luogo. Le tecnologie digitali le rendono abitanti (o turisti) di realtà diverse: multidimensionali. Una sta ascoltando un brano musicale di un cantante caraibico, l’altro conversa con la cugina australiana, un altro guarda la partita di calcio sul visore del suo smartphone, un altro ancora legge un quotidiano di Città del Capo».

Basterebbe infatti ragionare un momento sulle altissime probabilità che il brano del cantante caraibico sia in inglese, così come che la discussione con la cugina australiana avvenga nella stessa lingua, che la partita di calcio sia del campionato inglese (il Manchester United è la squadra più popolare al mondo) e che il giornale sudafricano si rivolga a un pubblico anglofono (come i 2/3 dell’editoria nazionale), per concludere che il turismo non è una “entità” a se stante e che la sua diffusione ha talmente poco a che fare con la distruzione della “ritualità”, che addirittura concorre a rinforzare quelle già esistenti piuttosto che crearne di nuove.

Lo stesso discorso, oltre che per il turismo, vale per la pornografia, e per lo squallido connubio tra i due fenomeni conosciuto come “turismo sessuale” (a tal proposito, se proprio si vuole approfondire, rimando a Piattaforma di Houellebecq, citato da Belpoliti per tutt’altri motivi).

In conclusione, se una sola parola di quanto ho scritto fosse chiara, a questo punto potrei esclamare “Scacco matto” per aver archiviato decenni di adelphismo partendo dalle stesse premesse del suo patrocinatore; temo tuttavia che nessuno abbia compreso granché. Ma è semplice: se tutto ciò che esiste può essere rappresentato da 0 e 1, la storia è già finita, cioè non finirà mai.

La tecnica è potenzialmente in grado di assumersi l’incombenza di esaurire il tempo, quindi nulla di “immediato” verrà più lasciato come tale: il tempo rettilineo combacerà perfettamente con quello circolare. Da tale prospettiva, lo “Scacco matto” vale anche per il Turco, il fantoccio che simulava un giocatore di scacchi manovrato di nascosto da un gobbo al suo interno, richiamato da Walter Benjamin in una celeberrima pagina:

«Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può senz’altro farcela con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta. E che non deve farsi scorgere da nessuno».

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