Voglio inaugurare questa nuova rubrica, Il complottista della domenica, ricordando con modestia il momento in cui alcuni lettori riconobbero al sottoscritto la capacità di aver “previsto” il golpe turco un mese e mezzo prima che esso si verificasse, con l’articolo Il grande e irreprensibile Erdoğan (2 giugno 2016).
L’episodio mi ha fatto concludere che talvolta un po’ di “complottismo” è necessario, seppur sempre mediato e meditato: non a caso in quell’occasione i “complottisti” d’ordinanza, un secondo dopo il fallimento del golpe, si inventarono che il buon Erdoğan se lo fosse organizzato da solo, dimostrando così di non essere affatto “complottisti”, ma semplici cazzari in balia di uno spin qualsiasi.
In fondo, ogni “complottista” si sceglie le storielle che più si confanno alle sue ridicole credenze: è per questo che, tanto per fare altro un esempio, i “complottisti” italiani, tutti filo-russi (senza sapere nemmeno “cos’è” la Russia), non hanno mai fantasticato sull’incidente aereo di Smolensk (2010), in cui venne sterminato l’intero governo polacco dell’epoca. Praticare il loro “metodo” in quel caso avrebbe significato oscurare l’immagine dell’idolo putiniano che si sono fabbricati.
Inoltre, il vero peccato originale di tali “complottisti” è non esser mai riusciti a prevedere una crisi, un golpe o un (auto-)attentato, nonostante essi siano continuamente impegnati a strologare sugli scenari più fantasiosi. Credo che proprio alla luce di tale incapacità divinatoria, sia d’uopo imporre la regola che un’analisi complottistica della realtà è legittima solo nella misura in cui è in grado di produrre previsioni verificabili sugli eventi futuri. Dal che si deduce che è scorretto praticare qualsiasi complottismo a posteriori, cioè quando tutto ciò che potrebbe essere “svelato” è già ad appannaggio di giornalisti, storici e opinionisti.
Dopo il preambolo necessario, veniamo finalmente al senso di questa rubrica: ciò che vorrei fare è far assurgere il complottismo al rango di disciplina scientifica, con l’ausilio indispensabile della sincronicità junghiana e della patafisica faustrolliana. Tuttavia per dare un’idea dei miei intenti non credo di ci sia nulla di meglio che portare qualche esempio. Per cominciare, vorrei parlare di tre casi che in un certo modo riguardano il passato, il presente e il futuro.
Il caso del passato è l’assassinio di Roland Barthes. Nel suo ultimo libro Il puzzle Moro (che abbiamo recensito) Giovanni Fasanella dedica qualche pagina alla misteriosa fine dell’intellettuale francese riportando le impressioni di Bruna Durante, “testimone” del clima intellettuale della Parigi dell’epoca:
«A un certo punto [Barthes] si era reso conto che qualcosa non funzionava. Non li approvava più [scil. i suoi “colleghi” parigini, da Sartre a Deleuze, da Foucault a Guattari] e avevano cominciato a dissentire. Il 25 febbraio del 1980, Roland fu investito da un furgone davanti al Collège de France. Morì in ospedale un mese dopo. Di quell’incidente, nel gruppo non si parlò mai. Era un argomento tabù».
Ora, il 22 marzo, a qualche giorno di distanza da queste sorprendenti dichiarazioni (il libro di Fasanella è dell’8 marzo), La Nave di Teseo pubblica un giallo di Laurent Binet che ha come tema proprio la scomparsa di Barthes, La settima funzione del linguaggio (uscito in Francia nell’agosto del 2015). Si tratta a tutti gli effetti di un fogliettone, ma le “sincronicità” che lo circondano stupiscono: non solo la singolare coincidenza con le “rivelazioni” di Fasanella, ma anche con lo scandalo degli ultimi giorni che ha coinvolto una delle protagoniste del romanzo, la filosofia Julia Kristeva, accusata di esser stata un’agente di uno dei servizi più spregiudicati dell’Unione Sovietica, quello bulgaro (e un camionista bulgaro ha ucciso Barthes…).
Nel volume (che recensiremo) si discute di un “misterioso documento” scomparso dopo l’incidente (ormai un topos della letteratura “civile” contemporanea) e dell’intervento in soccorso dell’investigatore da parte di Umberto Eco buon’anima, che ovviamente manda tutto in vacca. Al di là delle trovate fantapolitiche, è comunque forte la tentazione di ipotizzare che Barthes, dopo aver affrontato la “mitologia di destra” (l’impresa che lo ha reso celebre), avesse intenzione di fare lo stesso con quella di “sinistra”, magari sputtanando alcuni “amichetti” legati a doppio filo ai servizi segreti (non solo sovietici) e così solerti nella difesa dei terroristi italiani e nella denuncia del “regime” demo-comunista istituito in Italia da Moro e Berlinguer. Provvidenzialmente, Barthes scomparve prima di poter dire una sola parola di dissenso sulle oscene sinergie tra intellettuali di sinistra e poteri forti in Francia…
Il caso del presente riguarda il povero Romani Prodi. Non parliamo del “colpo da trentamila euro” che i ladri hanno appena realizzato svaligiandogli la casa, ma di un episodio verificatosi qualche mese fa: nel dicembre dell’anno scorso l’ex-presidente del consiglio interveniva nel libro dell’ex direttore del “Sole24Ore” Il Cigno nero e il Cavaliere bianco, affermando che Berlusconi fosse stato abbattuto a colpi di spread per la sua simpatia nei confronti di Putin e il suo scarso entusiasmo nei confronti dell’intervento in Libia contro Gheddafi.
Come diceva il von Humboldt: «La gente prima nega una cosa, poi la svilisce, poi decide che si sapeva già da tempo». Il fatto che Berlusconi sia stato spodestato da una “manovrina” decisa dall’Europa è stato più o meno ammesso da tutti, persino da Mario Monti che nell’indifferenza generale quasi un anno fa ha dichiarato al “Corriere” che il protagonista principale dell’iniziativa fu Mario Draghi, desideroso di “accreditarsi presso la Germania“.
Sembra però che non a tutti sia consentiti di esprimersi con tale leggerezza: infatti, poco tempo dopo questo accenno di apologia del vecchio Silvio, Prodi è finito niente di meno che nel Russiagate, come beneficiario, in qualità di presidente della Commissione Europea, dai fondi del lobbista americano Paul Manafort (per pochissimo tempo manager della campagna elettorale di Trump). Anche questo, per certi versi, è “un segreto di Pulcinella”: ai primordi del conflitto in Ucraina, Prodi fu immediatamente richiamato dal “Washington Post” per le sue posizioni eccessivamente filorusse. Certo fa specie che propri ora salti fuori, collateralmente alle manovre mediatico-giudiziarie contro Trump, uno “scandaletto” per ricordare a Prodi che certe cose comunque non le può dire (in fondo, mica è Timothy Geitner)
Il caso del futuro è il bullismo. Qualche giorno fa abbiamo ipotizzato che il ritrovato interesse nei confronti del tema sia dovuto a un “salto di livello” della pratica, che dagli studenti inizia a coinvolgere i docenti. Tuttavia, c’è da osservare che dall’inizio del 2018 sono già usciti parecchi volumi al riguardo, tra saggi (L’età dei bulli), pamphlet (I mutanti) e persino romanzi (come La vita finora di R. Montanari). Se sul “piatto ricco” della scuola si fionda persino il presentatore Giovanni Floris (Ultimo banco), allora pare che effettivamente qualcosa stia bollendo in pentola. Non è peraltro una fortuna che emerga un bel “caso eclatante” in contemporanea con tale fioritura editoriale? Se si trattasse però soltanto di una forma ulteriore di viral marketing, potremmo pure metterci il cuore in pace. Invece l’argomento “bullismo” inizia ad assomigliare più a una “strategia mediatica” della quale non si riesce a comprendere gli scopi. L’unica cosa di cui siamo certi è che il moral panic non è l’approccio migliore nei confronti di problemi complessi, in primo luogo perché è facilmente strumentalizzabile; temo sfortunatamente che il senso di tutto questo lo vedremo solo col fatidico senno di poi (e già qui possiamo saggiare tutti i limiti dell’impostazione complottista…).