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Boicottare le attività in cui lavorano immigrati

Dopo il mio disperato appello a darmi soldi perché non ho voglia di lavorare, sono giunte donazioni dall’immancabile LV (il quale dovrebbe suggerirmi argomenti di cui scrivere per concedermi di ricambiarlo almeno in questo modo) e da un ultra-anonimo del quale non posso nemmeno scrivere le iniziali pena la fine della sua brillante carriera. Penso che almeno lo divertirà il fatto che PayPal mi abbia segnalato la sua donazione rappresentandola come una mano nera che stringe un gettone d’oro.

Questa immagine così insopportabilmente “corretta”, woke e parapiddina mi risulta ancor più irritante perché mi coglie in un momento particolare, cioè quando sto prendendo la complicatissima decisione di boicottare qualsiasi attività che presupponga l’impiego della manodopera immigrata. E l’impossibilità che una mano nera mi sganci 75€ solo per “amicizia” è passato rapidamente alla prima posizione, perché a ben pensarci questa è una componente essenziale del problema. In effetti non mi è mai capitato di imbattermi in uno studio che, a fronte dei trionfalistici annunci sugli aumenti del PIL apportati dai migranti, aggiungesse al calcolo anche i miliardi che fuoriescono, per via più o meno legale, dal nostro Paese verso le patrie d’origine (Bangladesh, Romania, Filippine, Pakistan, Marocco e Senegal ai primi posti negli ultimi anni, per un totale di oltre 3 miliardi di euro su una cifra che, sempre secondi calcoli “ufficiosi” e cifre assolutamente sottostimate, si aggirerebbe sui 7 miliardi).

Sembra uno scherzo, ma qual è quella mano nera che dà soldi al panettiere, al barista, al droghiere, all’ortolano, al ristoratore (e al blogger, lol)? Perlopiù i pochi euro che tengono qui in Italia li “devolvono” alle numerose catene di discount tedeschi, vere e proprie “agenzie di destrutturazione della società europea” sorte come funghi proprio per venire incontro alla domanda di cibi scadenti in un settore dove i cinesi non sono riusciti a metter direttamente piede. Spero dunque che tale premessa serva a far capire che non è per razzismo (gno gno) se, vedendo che un ristorante ha un cameriere di origine slava o “asiatica”, io prendo e me ne vado senza tanti complimenti. Mi dà fastidio la totale mancanza di lungimiranza da parte di chi assume una persona avendo come unico criterio la possibilità di pagarla meno degli altri, come se non riuscisse nemmeno a concepire il concetto di “indotto” dalla sua prospettiva.

Ad ogni modo, veniamo alla vita reale: qualche giorno fa dovevo spedire un fax (per qualche motivo particolare in alcuni settori della Pubblica Amministrazione è l’unico mezzo di comunicazione consentito) e mi sono recato in un edicola che offre questo servizio boomer a cifre spropositate (ma ci sta). A parte la sorpresa nel trovare due nuovi proprietari, una coppia di sessantenni che avrà speso minimo centomila euro per comprarsi una baracca piena di carta straccia e cianfrusaglie, mi sono dovuto arrendere di fronte all’evidenza che il loro macchinario (probabilmente risalente al XVIII secolo) non funzionasse. Per necessità, ho dovuto recarmi all’unico “faxatore” disponibile in città, una di quelle singolari “cartolerie bangla” la cui unica raison d’être è appunto consentire agli immigrati a inviare rimesse nei Paesi d’origine.

Dopo aver aspettato in coda che marocchini e filippini spiegassero in un italiano incomprensibile a gente che non comprende l’italiano nemmeno quando è comprensibile in quale località mandare a quel Paese i soldi guadagnati dalle nostre parti, alla fine è venuto il mio turno: posto che mi sono stati chiesti 50 centesimi in più rispetto alle tariffe stabilite, posto che il foglio di ricevuta era segnato solo da un insoddisfacente “OK” e nessuna possibilità di comprendere se realmente la comunicazione fosse giunta a Konsṭānṭinōpol, devo dire che raramente mi sono sentito così ftraniero (sic) nella mia nazione (considerando tuttavia che, qualora possibile, cerco sempre di evitare ghetti e no-go zone).

In seguito ho peraltro scoperto che l’internet point in questione, come tanti altri in diverse città d’Italia, era stato appena rapinato (per un bottino di 9mila euro) probabilmente da “facce ftrane di una belleffa un po’ difarmante” (di solito la cronaca nei titoli indica solo l’età dei ladri, dunque si ha pressoché l’assoluta certezza trattarsi di diversamente italiani). Non che mi faccia piacere, ma almeno ciò spiega la doppia blindatura e della porta d’ingresso e della “zona cassa”, oltre che un atteggiamento di diffidenza verso qualsiasi cliente. Questo però era un esempio di come stia divenendo sempre più difficoltoso rivolgersi a italiani per qualsiasi tipo di servizio, specialmente nelle provincie del Nord.

Un altro esempio riguarda i negozi cinesi: per anni hanno avuto prezzi competitivi sulla stessa merce dei negozi italiani, che alla fine era ugualmente Made in China (dal vestiario alla cancelleria fino ad articoli sportivi o accessori e cazzi vari), poi dopo il pandemonio c’è stata un’impennata dei prezzi che non accenna a diminuire e viene di volta in volta attribuita a condizioni eccezionali. Non vorrei che fosse una strategia per far venire i nodi al pettine, e cioè costringere gli occidentali a comprare “cinesate” a un prezzo “non competitivo” solamente perché non c’è più nessuno in grado di produrle dalle nostre parti. Non si capisce se questa fosse il piano sin dall’inizio, o se i vertici di Pechino si siano resi conto di poter raccogliere quanto seminato dopo aver assistito al panico e allo smarrimento dei governo occidentali alle prese con la mancanza della loro paccottiglia durante la quarantena universale.

Anche qui si può osservare una incredibile mancanza di lungimiranza (almeno nei casi in cui la “buona fede” non sia ispirata da ingenti mazzette) da parte di chi credeva che i cinesi avrebbero mantenuto per secoli lo stesso ruolo nella cosiddetta “globalizzazione”; e ora le élite occidentali, dopo aver proceduto a una deindustrializzazione feroce e sregolata, vorrebbero perseguire la stessa linea per qualsiasi settore abbia ancora una qualche attinenza col mondo reale.

La questione alla fine è divenuta così complessa che le scelte individuali ormai contano poco. Tuttavia ci si domanda sempre se esista un modo per far inceppare il meccanismo. Voglio dire: c’è possibilità che un giovane italiano possa smettere di farsi ricattare psicologicamente da slogan come “gli immigrati fanno i lavori che tu non vuoi più fare”? Oppure rinunciare attivamente (qualsiasi cosa significhi l’espressione) agli incredibili vantaggi di un modello economico che contempla un incessante ricambio etnico in base al principio del farsi pagare meno per lavorare di più?

È snervante dover continuamente giustificare il proprio “consumismo” anche nel momento in cui si fanno scelte antitetiche a tale stile di vita, ma anche volendo accettare un presunto status di “privilegiato” come colpa collettiva, quali vantaggi ne deriverebbero? Al di là di qualsiasi questione morale che una situazione del genere porrebbe, si è sempre costretti a chiamare in causa gli ormai proverbiali “polli di Trilussa”, cioè in termini concreti accettare, in quanto autoctoni/indigeni, di far comunque parte di una casta superiore rispetto allo straniero, anche nel momento in cui egli detiene degli oggettivi (ed enigmatici) vantaggi in diversi ambiti (dal welfare all’assistenza più in generale, oltre che dal punto di vista abitativo e sociale). Ma questo è un altro capitolo che rischia di far aumentare la lista di accuse (vittimismo, dopo consumismo, materialismo e fancazzismo) che già pende sulla testa del maschio bianco etero caucasico cisgender o come lo si definisce oggi.

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