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Genealogie plebee

La settimana scorsa “Fuori Orario” ha mandato in onda Durante l’estate di Ermanno Olmi (1971). Un capolavoro, lo so, ma l’orario era (appunto) fuori dalla mia portata e ho potuto rivederne solo un pezzetto. La trama, in due parole, è questa: un solitario insegnante milanese, appassionato di araldica, truffa la gente facendogli credere di avere un retaggio nobile, ma quando finalmente si innamora di una dolce e ingenua ragazza, viene arrestato.

Capolavoro (confermo!). Non vorrei però discutere della poetica delicatezza o della delicata poeticità del quadretto di Olmi, oppure dell’indimenticabile interpretazione di Renato Paracchi (davvero sottovalutato, se oggi non ne conosciamo nemmeno la data di nascita – figurati quella di morte, neanche Borges sapeva la sua).

Il film mi affascina per tutt’altri motivi, probabilmente distanti anni luce dalla “morale” che ha voluto dargli il regista (posso intuire: rappresentare lo smarrimento dell’uomo contemporaneo che si aggrappa a qualsiasi cosa pur di distinguersi dalla massa ecc…). No, niente di tutto ciò; dalla prima volta che l’ho visto (sempre su “Fuori Orario”, almeno dieci anni fa), l’unica “illuminazione” che ne ho tratto, e che forse mi spingerebbe a rivederlo, è questa: perché i poveracci non hanno un albero genealogico?

Sì, sembra la domanda più idiota del mondo, ma la risposta potrebbe essere meno scontata di quel che ci si aspetta. Ricordo che all’epoca, quando ero ancora un giovane di belle speranze, avevo pensato di affiancarle un’altra ricerca volta a diradare un dubbio che serbo ancora: Nel Settecento i poveracci avevano i nonni? (si intende se nei secoli passati esisteva, anche dal punto di vista culturale, il concetto di “nonno” distinto da quello di patriarca o antenato).

Poi sfortunatamente mi sono un po’ perso, ma il desiderio di approfondire è rimasto. Mentre ritrovo queste stronzateaordinarie intuizioni, mi torna in mente anche la spiegazione “mcluhaniana” che a vent’anni mi ero dato: le genealogie plebee sono sorte con la fotografia, quando è divenuto possibile conservare un’immagine del nonno a chi non poteva permettersi ritratti di famiglia. Temo che l’idea, nonostante ora la consideri poco plausibile e motivata perlopiù da un certo snobismo da villan rifatto, sarebbe piaciuta persino al McLuhan…

Guardando però la questione anche dalla prospettiva in cui mi trovo (quella che gli anglosassoni definiscono deep shit), devo constatare che i poveracci hanno cominciato a ricordarsi degli avi solo nel momento in cui costoro hanno lasciato in eredità qualcosa di più che non lacrime, sudore e sangue. A meno che questi tre elementi non si inserissero nella classica dialettica signore-servo, ipotesi avvalorata dal fatto che molti lignaggi straccioni risalgono, per esempio, alle campagne garibaldine.

In effetti, pensandoci bene, anche il poveraccio più colto e agiato difficilmente riuscirebbe ad andare oltre la metà dell’ottocento, a meno di non rivolgersi a qualche imbroglione come il protagonista della “fiaba metropolitana” di Olmi.

Tuttavia, ad onta del moralismo che trapela dal film (ma che potremmo mettere da parte, godendoci solo la Milano agostana), il cui “messaggio”, come abbiamo già osservato, è che la società contemporanea ci rende alienati e in cerca di identità, credo invece che il desiderio di costruirsi una genealogia (nato fondamentalmente nel “secolo breve”) sia positivo. A dirla tutta, è solo da pochi decenni che i poveracci hanno iniziato a credere che la propria storia famigliare fosse degna di essere tramandata, anche se tra Adamo e il trisavolo ci sono millenni di nulla.

Negli ultimi anni è poi dilagato il business delle genealogie “direttamente a casa tua”: un’offerta che tuttavia sembra rispondere più a un ideale “spirito dei tempi” che non a una domanda effettiva. Perché è chiaro che questa “moda” di ricostruire il più misero dei lignaggi farà il suo tempo quando torneremo finalmente al feudalesimo e anche nell’ambito della “memoria” verranno ristabilite le gerarchie sociali.

È un problema che credo riguardi tutti (tutti i poveracci, intendo). Ogni tanto mi domando se quel che lascerò ai miei figli e nipoti in termini non solo spirituali, ma soprattutto materiali (la materia è spirito e lo spirito è materia), servirà almeno a garantirmi un posto nelle cornici digitali del futuro. Magari non potranno neppure permettersela, una cornice digitale, e dunque strapperanno la mia unica foto rimasta e ci sputeranno sopra. Non è per drammatizzare, ma mica è colpa mia se nessuno legge più Vico (uno dei primi esempi di genealogista plebeo, tra l’altro!) o perlomeno il Leopardi.

Nel migliore dei casi, cioè qualora decidessi di andarmene all’estero, mi troverei comunque costretto a “piantare un altro albero” (per riprendere la metafora vegetale): la schiatta ricomincerebbe perciò dal sottoscritto, appena sbarcato da un pianeta inospitale che vorrebbe dimenticare per sempre, con tanti saluti al nonno contadino.

Resterebbe, come extrema ratio, la soluzione suggerita da un mio lontano parente, uno di quei trickster che ogni tanto capitano nelle famiglie migliori e che meriterebbe in effetti di essere ricordato: farsi conservare imbalsamati in cantina. Con la precauzione aggiuntiva, da parte sua, di lasciarsi mummificare con una mano sul cuore e una sull’inguine, a indicare simbolicamente il messaggio da tramandare alle future generazioni: “Quando ero in vita vi ho dato il cuore; ora che sono morto non vi do più un cazzo”.

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