Negli ultimi anni si è parlato spesso di “morte della politica” (soprattutto perché un Dio mortale non può far altro che morire). Ora che finalmente è arrivata la “crisi internazionale” (se così vogliamo chiamarla), sono tornate in voga le “priorità” (occupazione, crescita, sviluppo ecc…). La speranza che al centro del dibattito tornino temi che interessano la collettività sembra però un’illusione. Si prova una certa inquietudine a immaginare le difficoltà degli storici futuri nel render conto di tutto il tempo sprecato dalle democrazie occidentali a discutere di stronzate.
Non credo che questo termine entrerà nel dibattito accademico, tuttavia penso che qualche politologo americano prima o poi conierà un neologismo di grido come Irrelevantics. Essendo io un reazionario, si può già capire a cosa mi riferisco: i gay, il multiculturalismo, le droghe leggere… Sono consapevole che mettere insieme questi elementi in un elenco unico sia piuttosto avventato: nel migliore dei casi si rischia un linciaggio mediatico per qualche nuovo psico-reato (omofobia, discriminazione, xenofobia).
Ad ogni modo, temo che i posteri non riusciranno a comprendere che tutte queste discussioni non sono state un prodotto di un normale dibattito democratico, ma una sorta di grumo ideologico utilizzato per soffocare il dibattito stesso. A dimostrazione di ciò le modalità –osservabili da tutti– con cui la irrelevantics sparisce dalla ribalta non appena si ripresentano le vere “priorità”: prima della crisi greca, l’Unione Europea esisteva nell’immaginario collettivo come garante dei diritti delle minoranze sessuali e come nemica dei crocifissi nelle aule di scuola; prima della crisi ucraina, Barack Obama aveva ridotto la politica estera americana (almeno a livello mediatico) alla esclusiva difesa dei diritti degli omosessuali. Poi il vecchio vocabolario della guerra fredda ha rimpiazzato all’istante l’imbarazzante psicodramma “arcobaleno” inscenato contro della Russia.
Nonostante ciò, la questione non può essere ridotta esclusivamente ai diritti dei gay, poiché riguarda più in generale l’espansione semantica del concetto di “diritto” che ormai ha raggiunto una preoccupante deriva totalitaria. Come scriveva René Girard, questo nuovo totalitarismo «identifica la felicità nell’appagamento illimitato dei desideri e, di conseguenza, nella soppressione di tutti i divieti».
Confondere la degenerazione dell’idea di “diritto” con una fantomatica evoluzione della democrazia verso la sua compiutezza significa distruggere qualsiasi possibilità di un reale progresso sul piano sia morale che materiale. Quello che in sostanza più infastidisce e preoccupa è proprio la chiacchiera infinita, il circolo vizioso creato dai media e dalla politica. Tutti questi discorsi tendono a rendere impossibile la convivenza civile. Non siamo più nel campo dei “diritti civili”, ma in una sorta di “controrivoluzione mascherata”: il concetto di “diritto” viene manipolato e strumentalizzato per scopi ambigui e indefinibili.
È evidente che qualcosa non funziona se il gruppo sociale che viene mantenuto in una specie di mobilitazione perpetua ed è obbligato a indignarsi per ogni diritto altrui violato, è poi quello che vede il suo stesso “carnet di diritti” sempre più assottigliarsi e non può in alcun modo agire per la difesa dei propri diritti, pena la demonizzazione o l’arresto.
La soluzione più semplice sarebbe quella di ghettizzarsi o alienarsi: per esempio iscrivendosi a un partito di estrema destra oppure adottando il qualunquismo come religione civile. Tuttavia anche una lettura “reazionaria” del presente finirebbe triturata dalla classica dialettica destra-sinistra o progresso-repressione, con il solito trionfo fiabesco del polo più avanzato della dissoluzione.
Bisognerebbe istigare la sinistra a prendersi sul serio, oppure pregare che una overdose di realtà faccia piazza pulita delle irrelevantics in un batter d’occhio. Quest’ultima posizione è la più comoda e conveniente, ed equivale all’opzione “Non sa/Non risponde” dei sondaggi: una sorta di scetticismo o indifferentismo che cova la speranza occulta di una vendetta della Realpolitik. Più che dissimulazione onesta, “simulazione disonesta”. Per questo anche noi, quando ci chiederanno “i gay? la droga? gli immigrati?”, saremmo pronti a dichiarare: “Non sa, non risponde”.