Ciò che non sono riusciti a fare una guerra mondiale e cinquant’anni di guerra fredda, è riuscita a farlo la fottutissima Unione Europea, ovvero -in poche parole- portare tutte le nazioni del Vecchio Continente nell’orbita della NATO. Chiunque a partire dagli anni ’90 del secolo scorso abbia cominciato a blaterare di “difesa europea” e altre amenità, ora ha sulla coscienza l’aver regalato alla storia una rappresentazione plastica della sconfitta e della desistenza, per giunta a decenni di distanza dalla débâcle effettiva!
In questi mesi si è celebrata l’entrata della Finlandia e della Svezia nell’Alleanza Atlantica sulla presunta pressione di “Putin il Terribile”, ma in prospettiva storica è evidente che un motivo sarebbe valso l’altro, come del resto è accaduto sia per il passato inserimento di Spagna e Francia che per il probabile ingresso di Austria, Irlanda, Malta o addirittura Cipro, nonché per l’imbarazzante imbarcata “in contemporanea” di Romania e Paesi Baltici nella NATO e nell’UE.
Ripensando col senno di poi al dispiegarsi degli eventi (e volendo anche ignorare gli attuali deliri filo-ucraini), si può tuttavia elaborare una conclusione più profonda di quella offerta dalla mera Realpolitik: ovvero che l’atlantismo, in quanto espressione del potere talassocratico, non richiede semplicemente un’adesione formale o utilitaristica a esso, ma, in senso metaforico, dalle nazioni pretende direttamente l’anima.
A livello storico, esistono almeno un paio di esempi tanto significativi quanto trascurati: Slovacchia e Spagna. Pochi sanno, o ricordano (o fingono di dimenticare), che i vertici militari americani nella nuova strategia post-89 avevano pianificato passo per passo l’allargamento dell’Alleanza Atlantica, e di conseguenza a metà degli anni ’90 era già stato deciso a tavolino l’ingresso di alcuni Paesi (Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria) a discapito di altri (come ad esempio la Romania, nonostante fosse sponsorizzata dai francesi).
Ebbene, nel momento fatidico dell’entrata della Cecoslovacchia, ne venne opportunatamente esclusa una parte, la Slovacchia, in quanto governata dal “reazionario” e “autoritario” Vladimír Mečiar, Presidente della fetta orientale dell’ex Repubblica Socialista Cecoslovacca solo dal 1993 al 1998, ma la cui aderenza non totalmente supina ai principi “liberali e democratici” dell’Occidente avrebbe fatto saltare la candidatura programmata della sua nazione.
Gli appassionati di geopolitica, forse a ragione, riducono tutto alla blanda russofilia del governatore, ma a Washington si parlava di “anima”, cioè di “rispetto dei diritti umani”, di “indipendenza della magistratura” e di “libertà di stampa”, che nel concreto si traducono nell’approvazione della propaganda a favore delle “minoranze sessuali” (già all’epoca un “tema in agenda”), nel dilagare del crimine e nella possibilità che il voto democratico possa essere invalidato, appunto, da organi “indipendenti”.
Questo vulnus che sta alla base dell’Alleanza Atlantica impedisce di considerare i rapporti di forza tra i “blocchi” dalla mera prospettiva del realismo politico a cui si accennava: al di sotto si percepisce sempre qualche altro elemento che lavora, e a dimostrazione di ciò si può portare il caso ancor più disarmante della Spagna, che venne accolta nel “club dei vincenti” solo quando il suo governo fieramente anti-comunista venne rimpiazzato dalla “democrazia”.
Contro il Generalissimo Franco sussistette infatti il veto di Stalin, persino a decenni dalla morte del dittatore sovietico (e già questo dovrebbe far riconsiderare tutta la vicenda europea del XX secolo), in quanto “tiranno” e “nemico della libertà” (e di altri “valori” pseudo-progressisti che i conservatori hanno abbracciato per un piatto di lenticchie): addirittura il diniego staliniano fu così possente che alla Penisola iberica fu impedito di approcciare le Nazioni Unite fino al 1955 (principalmente su pressione del diplomatico americano Alger Hiss, oggi ricordato perlopiù come spia sovietica).
Per farla breve, le potenze talassocratiche adottarono qualsiasi mezzo pur di “democratizzare” Madrid nonostante, da un punto di vista prettamente geopolitico, una Spagna franchista risultasse infinitamente più “spendibile” nella Guerra fredda che non una repubblica modellata su indicazioni staliniste.
Eppure Washington assoldò i rottami rossi della Guerra civil per elaborare una snervante “strategia della tensione” internazionale contro il Caudillo, paventando colpi di stato, attentati secessionisti, scioperi di massa e persino una forma ante litteram di immigrazione selvaggia. Non a caso fu solo dopo la scomparsa di Franco e l’avvicendamento di democristiani e socialisti nella transición, che la Spagna fece il suo ingresso nella NATO, come buona pace della stragrande maggioranza della popolazione del Paese, che per oltre l’80% -quindi in maniera politicamente trasversale- non aveva alcuna intenzione di diventare un satellite americano.
Trovo incredibile che l’universo conservatore europeo (ma anche internazionale) non si sia mai interrogato sull’inopportunità di affidarsi a un dispositivo militare intrinsecamente “progressista”, ma al contrario gli abbia volontariamente venduto l’anima anche nel momento in cui la minaccia sovietica, più immaginaria che reale, è scomparsa.