Mi si chiede di dire la mia su “pena di morte e cattolicesimo” perché su qualche social è sorto qualche dibattito e i cattolici ovviamente lo stanno perdendo (come accade di regola dal 1962). Vorrei partire da un dato essenziale: il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 (n. 2266) consente la pena di morte come extrema ratio:
«Difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, le pena di morte».
Nel 1997 era stata approntata una modifica all’articolo sulla scia della “sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte” (così Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae del 1995), che aveva edulcorato la formulazione precedente (di per sé già “evasiva”, absit iniura verbis) riducendo al lumicino i casi effettivi in cui risulterebbe legittima l’adozione del provvedimento:
«L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, §56)».
Nel 2018 Bergoglio ha imposto una revisione perentoria che, seppur fondata ancora una volta sulle fantomatiche opinioni di una altrettanto fantomatica “opinione pubblica”, ora obbliga i fedeli ad accettare l’inamissibilità della pena di morte in base a una nuova “consapevolezza” riguardo la “dignità della persona”:
«Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune.
Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi.
Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona” [Bergoglio cita un suo discorso] e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».
È necessario, per quanto spiacevole, constatare come l’emendamento di Wojtyła avesse già posto le basi alla negazione della validità dell’istituzione della pena capitale, nella misura in cui il valore di essa veniva ridotto alla pura dimensione “materiale” dell’efficacia nel reprimere il crimine e salvaguardare la sicurezza delle persone. Come antidoto a questa abominevole e deprimente confusione, non posso che provare a ricordare l’insegnamento legittimo (e non semplicemente “tradizionale”) della Chiesa sulla questione, parlando della figura di un Servo di Dio al quale viene negata la beatificazione anche per le sue opinioni a tal riguardo.
Padre Tomáš Týn (1950-1990) era un frate domenicano originario della Cecoslovacchia ma nato e cresciuto spiritualmente in Italia, dove a soli 22 anni compose una confutazione in latino della teologia rahneriana, a 25 venne ordinato sacerdote da Paolo VI e passò il resto della sua breve ma intensa vita a insegnare teologia morale (allo Studium domenicano di Bologna), fino alla morte avvenuta a soli 40 anni per un male improvviso presso i genitori -ferventi anticomunisti- in Germania. Per la sua incredibile virtù, eclissata forse solo dalla sua intelligenza (padre Týn fu uno dei più acuti e brillanti intellettuali tomisti del dopoguerra), è stata più volte introdotta la causa di beatificazione (la prima richiesta fu dell’indimenticato cardinale Carlo Caffarra), ma l’iter è stato sistematicamente e diabolicamente interrotto, come si diceva, a causa del sostegno di Tomáš Týn al santissimo istituto della pena di morte, un’opera meritoria trasvalutata in errore e colpa dai dogmi invertiti della Sinagoga di Satana che ha rimpiazzato la Chiesa.
È chiaro, a scanso di equivoci, che non si sta discutendo di un dogma, ma di un principio (morale) non esente dai mutamenti dei tempi: solo a titolo d’esempio si ricorda, sulla scorta di p. Giovanni Cavalcoli (assurto alle cronache per aver detto a Radio Maria che i terremoti sono provocati dai matrimoni omosessuali, ma ha anche dei difetti), che San Tommaso sosteneva la piena liceità della pena di morte per gli eretici ma nutriva dubbi persino nei confronti degli assassini, ritenendo molto più grave la corruzione della fede intesa come bene spirituale piuttosto che la corruzione dei beni materiali posta in essere da altri comportamenti illeciti (l’assassinio, appunto, ma anche il furto o la truffa). I teologi del 1997 avevano già invertito tale gerarchia; quelli del 2018 l’hanno semplicemente cancellata.
Discutendo più in specifico delle tesi di Tomáš Týn, egli partiva dall’ovvia constatazione che non solo il comandamento “Non uccidere” non può essere inteso in senso assoluto (perché chiaramente si sottintende “non uccidere l’innocente”, come il bambino nel grembo della madre), ma che bisogna senza esitazioni respingere la “sacralizzazione” della vita fisica posta in essere dalla modernità, che di per se stessa rappresenta una negazione della dignità della persona umana, nel momento in cui i valori della coscienza e dello spirito vengono sviliti in favore di una concezione esclusivamente materiale della vita.
Per richiamare un esempio di padre Týn, se la dignità della persona in generale giustifica, tra le altre cose, il sacrificio della propria vita per il bene altrui, non si capisce perché la dignità del reo non possa essere esalata con l’imposizione del sacrificio della sua vita per il bene comune (sia spirituale che temporale, perché i danni materiali causati dal criminale non sono inferiori a quelli immateriali inferti al tessuto sociale e alla coscienza collettiva).
Non capisco perciò la perversità di certi fedeli che vorrebbero sostanzialmente ridurre il cattolicesimo a una sacralizzazione del crimine. Tanto varrebbe inserire, tra le opere di misericordia corporale, quella di aiutare a evadere i carcerati dopo averli “visitati”: in fondo, anche il contenimento di una persona potrebbe risultare lesivo nei confronti della sua “dignità” (materiale) assolutizzata.
Peraltro scommetto quel che si vuole che tutti i sedicenti cattolici disposti a fare i salti mortali per difendere la vita del peggiore stupratore di bambini o assassino di vecchiette non emetterebbero nemmeno un fiato di fronte all’esecuzione di un “terrorista cristiano”: la mia sicurezza deriva dal fatto che tale eventualità si è già verificata nel 2003, quando Paul Jennings Hill, un presbiteriano della Florida, venne giustiziato con iniezione letale per aver assaltato una clinica abortista e ucciso un medico e la sua guardia del corpo. Esatto, neppure un sopracciglio alzato dai supercattolici di cui sopra, evidentemente troppo impegnati a struggersi per qualche pedofilo dell’Oregon (è accaduto sul serio).
Al di là tuttavia delle polemiche estemporanee, mi piace concludere con un parere definitivo sulla questione espresso da Romano Amerio nel monumentale Iota Unum:
«L’opposizione alla pena capitale […] [deriva] dal concetto dell’inviolabilità della persona in quanto soggetto protagonista della vita mondana, prendendosi l’esistenza morale come un fine in sé che non può essere tolto senza violare il destino dell’uomo. Ma questo modo di rigettare la pena di morte, benché si guardi da molti come religioso, è in realtà irreligioso. Dimentica, infatti, che per la religione la vita non ha ragione di fine ma di mezzo al fine morale della vita che trapassa tutto l’ordine dei subordinati valori mondani. Perciò togliere la vita non equivale punto a togliere all’uomo definitivamente il fine trascendente per cui è nato e che ne costituisce la dignità.
L’uomo può […] rendersi indegno della vita perché prende la vita come quel medesimo valore a cui invece essa serve. Per questa ragione vi è in quel motivo un sofisma implicito, che cioè l’uomo e in concreto lo Stato abbia il potere, uccidendo il delinquente, di troncargli il destino, di sottrargli il fine ultimo, di toglierli la possibilità di adempiere il suo officio d’uomo. Il contrario è vero. Al condannato a morte si può troncare l’esistenza terrena, non però togliergli il suo fine. Le società che negano la vita futura e pongono come meta il diritto alla felicità nel mondo di qua devono rifuggire dalla pena di morte come da un’ingiustizia che spegne nell’uomo la facoltà di felicitarsi. Ed è un paradosso vero, verissimo, che gli impugnatori della pena capitale stanno per lo Stato totalitario, giacché gli attribuiscono un potere molto maggiore che non abbia, anzi un potere supremo: quello di troncare il destino di un uomo».