Dall’ultimo studio dell’Unione di Banche Svizzere sul rapporto tra salari e prezzi al consumo è emerso che Milano si colloca al settimo posto nella classifica delle città più care al mondo: il dato, in sé sconfortante, è aggravato dalla posizione del capoluogo lombardo per salari medi (27°) e potere d’acquisto (37°). In pratica, se a New York il costo della vita è superiore di solo il 4,6% rispetto a Milano, in compenso i salari sono più alti del 50%. A questo aggiungiamo addirittura un primo posto nella classifica (stilata da Deutsche Bank) delle città più dispendiose al mondo per il weekend.
Si potrebbe analizzare da migliaia di prospettive il modo in cui questi tristi primati influenzano l’esistenza quotidiana dei milanesi. Personalmente, trovo una sottile affinità con un’esperienza (per il resto insignificante) che ho avuto l’altro giorno entrando in un tabacchino (situato in una zona nemmeno troppo centrale): per comprare le mie –ormai sputtanatissime– Chesterfield Rosse, ho dovuto sorbirmi un’interminabile fila di fighette (commesse incluse) tutte intente a discutere di vaping, la nuova “cultura” proveniente d’oltreoceano (italianizzata col verbo “svapare”). In breve queste tizie hanno passato infiniti minuti a dibattere su resa aromatica, fumosità ed ergonomia maneggiando strani aggeggi che dopo qualche istante ho compreso essere sigarette elettroniche (per me avrebbero potuto essere, chessò, vibratori).
La situazione era talmente surreale da avermi per un attimo fatto perdere la cognizione spaziale: eravamo in una “rivendita di sale e tabacchi” o in uno store stile Nespresso/Apple? Non è stata una bella sensazione, a livello personale (sto diventando vecchio e mi ripugna tutto quello che fanno i giovani), di genere (è tornata la donna “fuma-fuma” dell’Omen nonostante un decennio e passa di criminalizzazione del tabagismo) e sociale (ebbene sì, siamo riusciti a glamourizzare pure il fumo).
Mi aspetto che da un momento all’altro le gazzette eleggano Milano a “capitale mondiale dello svapo”, dopo che negli ultimi anni è stata anche “capitale mondiale” della moda, del design, del digitale, dell’architettura, della fotografia, dell’artigianato, dell’innovazione, della radio, del turismo, dell’economia, del mangiar sano, del tennis, delle macchine utensili, della movida, della creatività, del digitale, delle startup, dello shopping, della ristorazione, della motocicletta, della bicicletta, del mobile, della pasticceria, del pattinaggio ecc…
Mi fermo qui per non esagerare, ma ci saranno almeno un altro centinaio di denominazioni: anche basta, grazie. Il troppo stroppia, come dice la saggezza popolare (non so se esiste un corrispondente in dialetto, ma del resto il milanese, lingua ricca e musicale, non se la passa molto bene – e neppure vogliono “brandizzarlo” per il solito snobismo verso le proprie radici).
Fino a poco tempo fa mi sarei sentito ridicolo a dare la colpa ai lunghi anni di “piddinismo reale” che la città ha dovuto sopportare, però bisogna constatare che rispetto soltanto a due lustri fa il modello milanese è diventato totalmente insostenibile, nonché improponibile per qualsiasi altro capoluogo italiano. Per avere una rappresentazione plastica di questa débâcle basti pensare alla mancata assegnazione dell’Agenzia del Farmaco Europea: un’umiliazione per l’intero Paese, ma soprattutto per la “tecno-sinistra” che col suo europeismo provinciale non è nemmeno riuscita a ottenere le briciole. Col senno di poi, le “grandi opere” à la milanaise restano confinate alla stagione italo-forzista, che ha posto le basi per l’Expo, la riurbanizzazione di molte aeree, le nuove linee della metro, lo skyline ecc…
Il centro-sinistra si è inserito in questo quadro di “sviluppo obbligato” contaminandolo con paranoie e moralismi radical chic, impossessandosi di un “modello” per trasformarlo in pura distopia. La vita dei milanesi “normali” oggi è fondamentalmente una vita low cost, adatta per lo studente fuorisede, lo squatter col papà milionario, lo spacciatore col borsello firmato, l’immigrato di prima generazione o la svapatrice lesbica già in fila davanti allo Starbucks di prossima apertura.
Un’altra manifestazione dello spirito perverso che si è impossessato della città sono infatti le decine e decine di poveri cristi in bici con uno scatolone sulle spalle che ci si vede sfrecciare continuamente accanto. Alcuni trovano lo spettacolo della gig economy molto suggestivo, così “europeo”, così “newyorchese”: evidentemente solo a me fa venire in mente il Terzo Mondo. Inoltre la domanda sorge spontanea ogni volta che ci si imbatte in tale epifenomeno: ma chi cazzo è che mangia a tutte le ore?
Il problema qui si intreccia con quello della cosiddetta “movida”: è noto lo stereotipo del milanese che si lamenta di tutto, immortalato in tanti pezzi di Elio e le Storie Tese (vedi qui, qui o qui), però è un dato di fatto che la “dittatura del chioschetto” non abbia nulla a che fare con la Giovine Europa dei piddini. Al contrario, tra le direttive europee una delle più recenti riguarda proprio la mappatura sull’esposizione alle sorgenti di rumore, perché è solo a Milano che il cittadino che vuol dormire di notte viene trattato come un sociopatico e un bigotto, mentre a Parigi come a Berlino come ad Amsterdam si discute continuamente di stratagemmi per dirottare la “calca polifonica e scoreggiona” (© A. Arbasino) da quartieri residenziali e centri storici verso aree più isolate e gestibili (per esempio, i parchi, in molte città del Vecchio Continente aperti tutta la notte).
In definitiva, la catastrofe, oltre che politica, è soprattutto culturale: lo spirito del piddinismo, rivelatosi fallimentare su tutti i fronti, si sta arroccando proprio nel capoluogo lombardo, visto come ultimo bastione del socialismo irreale di stampo blairiano (inteso come Eric, non Tony). Non vorrei che la ricchezza della città alla lunga venisse dissipata per farne un supporto materiale a “sogni” tecnocratici e mondialisti che hanno già fatto il loro tempo.