Site icon totalitarismo.blog

Modelli di mascolinità positiva? Ma lasciateci in pace…

L’isteria collettiva che puntualmente accompagna sparuti casi di cronaca classificati dai mass media come “femminicidi” (e amplificati ad arte dagli stessi), è giunta a un tale parossismo da esser divenuta incommentabile. Perciò continuino pure giornalisti, influencer, calciatori, attricette, maestrine e gattare, a lanciare accuse generalizzate su un tipo specifico di maschio e a delirare su patriarcato, fallocrazia, educazione all’affettività e piromania. Noli me tangere, anche se sfortunatamente sta diventando sempre più un lusso potersi defilare da certi contesti in cui lo “sclero” è ormai istituzionalizzato.

Detto ciò, mi colpiscono maggiormente i continui appelli, da “destra” come da “sinistra”, a presunti modelli di virilità (classici o moderni), i quali dovrebbero, tra le altre cose, indirizzare l’uomo verso il dominio totale delle proprie emozioni e passioni. Per quanto tali osservazioni possano apparire condivisibili, in realtà è forse il contesto di psicosi di massa a farle sembrare più ragionevoli di quanto effettivamente siano: ma a ben vedere, anch’esse non sono che un modo per elaborare accuse collettive da un singolo episodio.

Come esempi di tale tesi possono portare le opinioni espresse negli ultimi giorni da due intellettuali collocati (almeno all’apparenza) su schieramenti opposti, ovvero il giornalista Francesco Borgonovo, il quale sostiene che i maschi violenti sono figli di “una società impregnata di un materno caricaturale, che distrugge la mascolinità positiva” e non produce veri uomini ma “bimbi viziati incapaci di gestire il rifiuto”, e il sociologo Luca Ricolfi, che interpreta la presenza ai primi posti delle statistiche sulla violenza contro le donne di Paesi considerati all’avanguardia della civiltà (come la Svezia o il Canada) quale espressione di una “cultura dei diritti” che impedirebbe agli uomini di accettare i fallimenti in maniera adulta:

«Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali […].
Nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco» (fonte).

Il concetto è più o meno lo stesso: en passant si noti come la proposta di Borgonovo di riscoprire modelli maschili tradizionali sia obiettivamente più umana di quella di Ricolfi, che sembra mascherare una tendenza a considerare qualsiasi richiesta di diritti (tra i quali egli enumera «successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso») come espressione di un capriccio di chi è incapace di accettare la durezza del vivere (non intendo insinuare che lo studioso stia sostenendo esattamente questa tesi, però la comparazione dei diritti all’istruzione o all’abitazione con quelli al “diverimento” o allo status è indirettamente un tentativo di sminuirli a “piagnisteo”).

Torniamo però al punto: mentre le femministe hanno un’idea, per quanto vaga, di quali siano i modelli di “virilità negativa” (praticamente qualsiasi cosa faccia un uomo, dal nascere al respirare fino all’urinare in piedi) non riescono però a formulare alcuna proposta costruttiva (se non bruciare tutto o immaginare stermini di maschietti), i “maschilisti” (non è strano che solo in tal caso il suffisso -ismo rappresenti una posizione estrema e settaria?) si rifanno sostanzialmente al paradigma dell’uomo che non deve chiedere mai (le grazie di una donna secondo Borgonovo, un sussidio allo Stato secondo Ricolfi).

Pur abbellendo con virtuosismi stoici, agonistici o stacanovistici i propri archetipi di riferimento, è un dato di fatto che non esiste un modello universale di virilità. Per certi versi anche i nostalgici del “duro”, volenti o nolenti, sono influenzati dai concetti di mascolinità introiettati nella cultura di massa della seconda metà del secolo scorso (per esempio i film di Hollywood), a loro volta sottoprodotti di infinite rivoluzioni e salti di paradigma, come la mitologia del self-made man che si impossessa delle forme di mascolinità considerate “devianti” dalla generazione borghese precedente (per la quale valeva la figura dell’honnête homme) e ne fa la base di un nuovo modello di società competitiva e arrivista.

D’altro canto, solo per precisare, se allarghiamo lo sguardo oltre l’Occidente notiamo che in alcune culture “tradizionali” come rito d’iniziazione i giovani debbano praticare sesso orale ai maschi adulti del proprio clan: il riferimento, molto noto agli antropologi, è alle tribù della Papua Nuova Guinea dei Simbari/Sambia e degli Etoro/Edoro (i quali, in aggiunta, sono tenuti periodicamente ad accoppiarsi con altri uomini, oltre che per far germogliare i raccolti e aumentare la propria longevità, per dimostrare per l’appunto la loro virilità).

Presso i Siwi/Isiwan, tribù berbera del Nord Africa, tutti gli uomini devono avere rapporti omosessuali e devono cominciare a farlo molto presto, anche a partire dai dieci anni, quando i padri si scambiano i figli a vicenda tra loro (per farci sesso, a scanso di equivoci), oppure li affidano a un anziano del villaggio. Alcuni studiosi sostengono che tali usanze, interrotte verso gli anni ’20 del secolo scorso, vengano ancora praticate in segreto. Ad ogni modo, per i berberi Siwi il divieto di celebrare matrimoni pubblici tra uomini deve aver di certo rappresentato un decadimento del loro concetto di virilità e una “femminilizzazione” effettiva dei costumi (chissà da tale prospettiva cosa sosterrebbero i vecchi della tribù se un giovane si macchiasse di “maschicidio” contro un altro…).

Senza andare oltre, questo serviva solo a far rendere tutti conto che è facile giudicare basandosi su riferimenti astratti e di conseguenza considerare un uomo che giunge a commettere un delitto come un “adulto rimasto bambino”, un pusillanime o un “senza palle” eccetera. Quando si fanno certi discorsi, in realtà nemmeno ci si accorge che essi stessi rispecchiano dei nuovi modelli di virilità, considerando che in Italia, fino al 1981 (anno in cui venne abrogato il delitto d’onore) in taluni contesti sarebbe stato considerato un “bimbo” (non solo a livello legislativo) chi non avesse lavato col sangue l’onta di un adulterio.

E questo è esattamente il punto a cui volevo arrivare: i “maschilisti” odierni vedono gli uomini del passato come esempi di autocontrollo, fermezza, forza, gagliardia ecc., senza nemmeno rendersi conto che esisteva un intero sistema a garantir loro la possibilità di essere “veri uomini”. Mi piacerebbe vedere uno qualsiasi di questi maschi ideali su cui si fantastica tanto alle prese con un contesto in cui gli uomini non possono trattare le donne come loro proprietà, non possono batterle, segregarle o ucciderle, non possono impedir loro di uscire di casa né decidere chi possano frequentare, e infine non possano più nemmeno pretendere la fedeltà. Facile così, essere “perfetti”: ma se gli uomini hanno creato certe leggi, usanze e tradizioni non è per misoginia, sadismo o voglia di dominio. Era una questione di ordine, giustizia e difesa della specie. Tale discorso andrebbe però approfondito chiaramente in altra sede.

Per concludere, oggi non è possibile ispirarsi a nessuno dei modelli di “virilità positiva” sorti negli ultimi 5000 anni circa perché è praticamente dalla fine del neolitico che il genere maschile non si trovava in una situazione del genere (una volta compreso questo, ci si rende anche conto dell’importanza di un film come Barbie). Gli uomini occidentali delle ultime due generazioni sono i primi, dopo millenni, a dover accettare, giusto per dirne una, la piena uguaglianza giuridica con il genere femminile. Da tale enormità derivano innumerevoli conseguenze, tra le quali la necessità di ripensare il proprio ruolo e rendersi conto che il famigerato “patriarcato”, nel bene e nel male, ha molto più a che fare con il diritto e gli usi e costumi condivisi da una società, che non con l’educazione personale, i rapporti con la propria famiglia o la psicologia individuale.

Exit mobile version