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Mussolini, servo del capitale?

Voglio ripubblicare questo articolo di Andrea Marconi per “L’Intellettuale Dissidente” del 4 giugno 2018 perché è scomparso completamente dal web (attualmente è stato rimpiazzato da una cosaccia probabilmente nemmeno scritta da un essere umano). A mio parere è un’analisi che meriterebbe almeno una lettura ed è solo per questo che mi permetto di metterlo sul mio blog. Se l’Autore tuttavia è in disaccordo con la mia iniziativa, può scrivermi e chiederne la rimozione.

Nel lontano dicembre del 1978, sulle pagine del quotidiano “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, si trovò a dare voce ad uno degli ultimi avvertimenti che provennero in quegli anni dal mondo della “sinistra” rispetto alle conseguenze economiche dell’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo, primo banco di prova della moneta unica. Nell’esporre i possibili rischi per l’economia del Paese, i redditi dei lavoratori e la tenuta del sistema bancario, Scalfari faceva ricorso a un’inquietante analogia con le politiche economiche del ventennio fascista, e in particolare con la quota novanta di Mussolini.

«Nel 1926 il governo fascista decise di rivalutare la lira, portando il cambio con la sterlina a quota 90. […] A quella scelta monetaria del governo seguirono alcuni rilevanti provvedimenti di politica dei redditi. Nell’ottobre del 1927, i salari furono ridotti per decreto da un minimo del 10 ad un massimo del 20 per cento. […] Questi fatti antichi, e in gran parte dimenticati […] presentano notevoli analogie con le decisioni che sono state prese nei giorni scorsi circa il nostro immediato ingresso nel Sistema Monetario Europeo. Oggi come allora il cambio estero ha rappresentato il “vincolo esterno” dal quale dovranno derivare conseguenze inevitabili sull’economia reale» (Quota novanta, “La Repubblica”, 17 dicembre 1978).

Nella consapevolezza che le conseguenze inevitabili sull’economia reale da egli paventate – la deflazione salariale, il crollo dell’occupazione e la contrazione del credito – sono tutt’ora elementi caratterizzanti dell’economia italiana all’interno dell’eurozona, quello che all’epoca poteva suonare come un sinistro presagio assume oggi i contorni di un’amara profezia.

L’analisi di Scalfari potrebbe dirsi quasi ineccepibile, se l’articolo non proseguisse con altre considerazioni decisamente meno convincenti. Pur evidenziando le innegabili analogie da un punto di vista formale, Scalfari tenne infatti a precisare che Mussolini aveva fissato il cambio per puro prestigio nazionalistico, mentre l’Italia democratica degli anni ’70 stava compiendo uno sforzo di risanamento per congiungersi all’Europa.

Che la sciagurata politica monetaria del fascismo fosse mossa unicamente da considerazioni ottusamente nazionalistiche – come vorrebbe Scalfari – o indomitamente patriottiche – come voleva la propaganda dell’epoca – è un’ipotesi ampiamente smentita dai più recenti studi in materia.

Nel prezioso saggio The guardians of Capitalism (2015), la ricercatrice Clara Mattei dimostra chiaramente come il nascente regime recepì fin dal principio le istanze della finanza e della grande industria, delineate proprio in quegli anni in occasione delle conferenze internazionali di Bruxelles (1920) e Genova (1922).

Tali conferenze furono promosse dal consiglio della Società delle Nazioni allo scopo di fronteggiare la crescente “instabilità” dei mercati mondiali in un frangente storico caratterizzato da importanti conquiste e rivendicazioni sociali – che in Italia si tradussero fra le altre cose nell’estensione del suffragio (1918) e nella riforma del sistema elettorale in senso proporzionale (1919).

Tra gli invitati vi fu anche il principale propugnatore del pensiero liberista in Italia, il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, le cui dichiarazioni degli anni immediatamente successivi sembrano imputare quel senso di estrema precarietà proprio alla presenza di un solido movimento socialista su scala internazionale, vera e propria minaccia esistenziale per l’allora traballante regime capitalistico:

«Erano i tempi in cui si parlava della borghesia come di una classe sociale corrotta, in cui sembrava che bastasse un colpo di spalla per buttare a terra il cosiddetto regime capitalistico. Il millennio comunistico pareva vicino; il regno dell’uguaglianza prossimo ad attuarsi» (L. Einaudi, Classe dirigente e proletariato, “Corriere della Sera”, 16 dicembre 1924).

Per quanto risulti difficile credere che Einaudi fosse veramente convinto di un’ormai prossima attuazione del regno dell’uguaglianza, resta il fatto che nel primo dopoguerra il forte appoggio popolare verso politiche statali a sostegno dell’occupazione e dei redditi poneva le classi dominanti di fronte a una sfida senza precedenti:

«L’opinione pubblica è la principale responsabile di questa situazione. Quasi tutti i governi sono sottoposti a pressanti richieste di nuove spese» (League of Nations 1920, 13).

Fu così che, per la prima volta nella storia, equipe di tecnici dell’alta finanza si riunirono insieme a politici e uomini d’affari provenienti da ogni nazione dell’occidente con l’obiettivo di elaborare una strategia di risposta congiunta ai problemi che affliggevano il grande capitale.

Lo spirito delle due conferenze è riassunto nelle parole pronunciate a Genova dal delegato francese M. Picard: si trattava di disciplinare quell’opinione pubblica che, facendosi portatrice di richieste irrealizzabili, si era resa responsabile del dissesto finanziario degli stati e quindi dell’instabilità dei mercati:

«Il primo passo è quello di far sì che in ogni Paese l’opinione pubblica sia posta di fronte ai fatti, e in particolare alla necessità del risanamento dei conti pubblici come presupposto per l’attuazione delle riforme sociali» (League of Nations 1920, 13).

«Sfortunatamente, dalla fine della guerra, non ha prevalso uno stile di vita attento e parsimonioso ma, al contrario, una certa propensione al lusso, al piacere e alla dissolutezza» (W.N. Medlicott & D. Dakin 1974, First Series Vol. XIX, 712).

Alle masse popolari che appena qualche anno prima avevano pagato con il sangue le politiche scellerate dei loro governanti, fu dunque attribuita ogni responsabilità morale dello stato di crisi della finanza internazionale. Le rivendicazioni sociali venivano liquidate come espressione degli istinti egoistici di un popolo dissoluto e più in generale come il risultato dell’incapacità di adottare uno stile di vita sufficientemente austero. Da questo ribaltamento moralistico della realtà prese le mosse la narrazione secondo cui il sacrificio delle classi subalterne rappresentava l’unica garanzia di stabilità e prosperità.

«Ci viene chiesto, al fine di evitare ulteriori indebitamenti, di stabilizzare i conti pubblici e di ridurre la spesa. Ma non è forse questo un problema di carattere morale? La riduzione della spesa comporta l’abbandono di ogni pretesa eccessiva ed egoistica da parte di individui, gruppi e classi sociali desiderosi di condizioni migliori» (W.N. Medlicott & D. Dakin 1974, First Series Vol. XIX, 712)

Il ripristino dell’ordine morale e del “corretto” funzionamento del sistema economico si sarebbe dovuto realizzare attenendosi a due principi fondamentali: la stabilità dei cambi (da sempre grande preoccupazione dei prestatori internazionali) e il pareggio di bilancio, che avrebbe ulteriormente contribuito a tenere a freno i consumi interni.

«Le fondamenta di ogni costruzione monetaria e finanziaria sono morali. Commisurare la spesa alle risorse disponibili; onorare gli impegni sottoscritti; ripagare i debiti in una valuta che non perda di valore al momento dell’uso perché creata artificialmente e stampata in quantità eccessive» (W.N. Medlicott & D. Dakin 1974, First Series Vol. XIX, 710).

«Fino a quando gli Stati sosterranno i loro deficit con la creazione di moneta fiduciaria o attraverso prestiti bancari, non sarà possibile alcuna riforma del sistema monetario che ci avvicini alla realizzazione del gold standard. La riforma più importante sarà dunque quella del pareggio di bilancio, grazie al quale non sarà possibile emettere credito senza la copertura di nuovi beni reali. Il pareggio del bilancio richiede un livello di tassazione adeguato. Tuttavia, se la spesa pubblica è così grande da spingere la tassazione oltre un livello sostenibile dal reddito del paese, l’inflazione non può più essere frenata da nuove imposte. Il vero rimedio è la riduzione della spesa. Il pareggio di bilancio risolverà il problema del deficit delle partite correnti attraverso la riduzione dei consumi interni» (Resolution VII, 3).

La completa privatizzazione dell’industria rappresentava naturalmente un ulteriore strumento di risanamento delle finanze pubbliche. L’impresa sarebbe dovuta passare interamente nelle mani dei privati «la cui esperienza, unita allo spirito imprenditoriale, è uno strumento assai più efficace per la ripresa del Paese» (Resolution VI, 19),

Il governo Mussolini, per opera del ministro del Tesoro e delle Finanze Alberto De Stefani (1922-1925) e del suo successore Giuseppe Volpi (1925-1928), fu il principale e migliore interprete di quanto prefigurato nelle due conferenze:

«Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità di bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello Stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il Governo del Re ha fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge» (Legge 3 dicembre 1922, n.1601).

«Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell’attività privata dell’individuo» (B. Mussolini, Primo discorso al parlamento, 21 giugno 1921).

«Il problema finanziario è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità possibile al pareggio del bilancio statale» (B. Mussolini, Discorso del bivacco, 16 novembre 1922).

Queste dichiarazioni di intenti valsero a Mussolini gli elogi del già citato Einaudi, che dalle colonne del “Corriere”, in un articolo dall’eloquente titolo Sulla buona via, evidenziò come il programma economico fascista fosse in «netta continuità con la tradizione liberale classica […] della marca più autentica e pura».

Questo dimostra, contrariamente a quanto rilevato da Scalfari, quanto già all’epoca la retorica fascista servisse a mascherare il perseguimento di obiettivi tutt’altro che avversi a quelli del capitale finanziario internazionale. Poco importa se la moneta forte (leggasi sopravvalutata) da difendere a costo di tutti i sacrifici necessari fosse la nostra lira e non una moneta espressione di istituzioni sovranazionali.

«Il regime fascista resisterà con tutte le sue forze ai tentativi di jugulazione delle forze finanziarie avverse, deciso a stroncarle quando siano individuate all’interno. Il regime fascista è disposto, dal suo capo all’ultimo suo gregario, a imporsi tutti i sacrifici necessari, ma la nostra lira, che rappresenta il simbolo della Nazione, il segno della nostra ricchezza, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sforzi, dei nostri sacrifici, delle nostre lacrime, del nostro sangue, va difesa e sarà difesa» (B. Mussolini, Discorso di Pesaro, 18 agosto 1926).

Non è poi così sorprendente, in fondo, che in un periodo storico come il Ventennio fascista fosse possibile fare leva su una presunta natura eroica dell’atto sacrificale per giustificare una politica economica di deflazione salariale, privatizzazioni e di sostanziale restaurazione rispetto alle conquiste sociali del primo dopoguerra. Stupisce invece che questo genere di narrazione possa essersi imposta in tempi ben più recenti, senza peraltro suscitare lo sdegno di alcun intellettuale di “sinistra”. Sarebbe bastato infatti un pizzico della memoria storica che Scalfari sembrava ancora conservare nel 1978 per rabbrividire di fronte a dichiarazioni come quella di Tommaso Padoa Schioppa (1940-2010:

«Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità» (Berlino e Parigi ritorno alla realtà, “Corriere della Sera”, 26 agosto 2003).

E ancora, in una fase critica come quella del 2011, non avremmo assistito al totale silenzio della sinistra di fronte all’imposizione di un governo tecnico come quello di Mario Monti, le cui cure – prefigurate già nella lettera inviata in “segreto” da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet al governo italiano il 5 agosto 2011 – ricalcano in maniera inquietante quelle implementate dal governo Mussolini in ossequio ai dettami che già allora provenivano da Bruxelles.

«L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. […]
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala;
b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione;
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».

A conti fatti, molti di coloro che ai giorni nostri agitano lo spettro del fascismo sembrano del tutto ignorare quale fu la natura del disegno sociale che la violenza squadrista servì a imporre. Il vincolo esterno rappresentato dalla difesa del cambio ebbe come effetto quello di migliorare in termini reali la posizione dei creditori e di peggiorare quella dei debitori, di avvantaggiare la grande industria a scapito delle piccole e medie imprese – i fallimenti crebbero da 867 nel 1921 a 8.839 nel 1930 – e di costringere a pesanti provvedimenti di politica dei redditi – i salari furono ridotti, attraverso lo strumento del contratto collettivo di lavoro, nel 1927 (del 10-20%), nel 1930 (dell’8%) e ancora nel 1934 (dell’8%).

A quasi un secolo di distanza, le istituzioni europee continuano a voler riproporre quei rimedi che mai nella storia del nostro Paese hanno prodotto benefici e sempre hanno arricchito pochi a svantaggio di molti; tuttavia, per uno strano risvolto della storia, ad essere additati come reazionari sono oggi proprio coloro che si oppongono alla costruzione europea e alle ricette fallimentari che essa impone agli Stati membri come unica risposta agli squilibri internazionali.

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