Durante la sua visita in Italia, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha voluto ricordare la “antica amicizia” che lega i nostri Paesi: un legame plurisecolare che risale all’epoca delle ambasciate itineranti secentesche e che in tempi moderni ha trovato il suo alfiere nella figura di Enrico Mattei. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha tenuto a ricordare una frase del grande capitano d’industria durante il Business Forum di Roma: “Quando abbiamo incominciato, eravamo sognatori”, aggiungendo che finalmente il sogno si è trasformato in realtà. A riprova che nemmeno Teheran ha dimenticato il sacrificio di Mattei, una sua foto campeggia ancora negli uffici della National Iranian Oil Company di Teheran.
Sono stati anni difficili dal punto di vista commerciale per le relazioni italo-iraniane: nonostante le nostre imprese abbiano continuato a operare anche durante il periodo delle sanzioni (e i nostri politici, di qualsiasi appartenenza, provveduto a difendere l’interesse nazionale con la dovuta dose di spregiudicatezza), la “gabbia di matti” in cui ci siamo rinchiusi, questa Unione Europea senza identità né storia, ha fatto sì che Roma, da primo partner commerciale di Teheran, durante gli anni della crisi venisse sorpassato guarda caso da Berlino.
La Federazione Industriale Tedesca (BDI) ha infatti già pronosticato “un boom del “made in Germany” nel Paese, dai 2,4 miliardi di euro [del 2014] a più di 10 miliardi nel medio termine”, contro i 3 miliardi di euro che l’export italiano dovrebbe fruttare nei prossimi quattro anni (G. Stringa, Iran, quei 3 miliardi per il made in Italy, “Corriere”, 15 luglio 2015). Il condizionale è d’obbligo non solo perché una moneta come l’euro ci danneggia dal punto di vista delle esportazioni, ma anche perché è difficile che le altre nazioni lasceranno all’Italia lo spazio che le spetta nel nuovo mercato.
Ormai è palese che nell’Unione Europea il successo di un Paese si basa sulla disfatta di un altro: le possibilità di cooperazione sopravvivono perlopiù nelle menti soggiogate dal “sogno”. Gli eventi degli ultimi anni (dall’intervento in Libia alle sanzioni anti-russe, dai regolamenti europei sfavorevoli contro il “Made in Italy” alla svendita dei “gioielli di famiglia”) raccontano una guerra economica intra-europea che ha visto l’Italia perennemente sconfitta.
È dunque nelle condizioni peggiori che il Paese si affaccia a un mercato di 80 milioni di potenziali consumatori. Vari settori dell’export italiano sono stati danneggiati dalla piccola guerra fredda mossa contro la Russia dall’UE sotto supervisione tedesca e americana: non solo dal punto di vista energetico (sospensione del gasdotto South Stream; per pura coincidenza, il Nord Stream che serviva alla Germania invece è stato portato a termine) e militare (revoca del progetto per la produzione di sottomarini Classe S1000 patrocinato da Fincantieri), ma soprattutto agroalimentare, con una ricaduta anche dal punto di vista “culturale”, se così possiamo dire, poiché Federalimentare segnala che il danno economico è poca cosa in confronto della distruzione della “abitudine al gusto italiano” costruita negli ultimi decenni: adesso la carne può arrivare dal Sud America (Brasile, Argentina), il pesce dal Nord Africa (Marocco, Egitto, Algeria) e tutto il resto dalla Turchia e dalla Svizzera (che ha già soffiato il posto all’Italia nel settore caseario).
È necessario ricordare che alla “torta petrolifera” iraniana mirano concorrenti spietati quali Total (Francia), BP (Inghilterra), OMV (Austria), StatoilHydro (Norvegia) e ConocoPhillips (Stati Uniti). Non è lecito illudersi che questi colossi concederanno all’Eni di muoversi liberamente; fosse per loro, non lascerebbero al cane a sei zampe nemmeno gli 800 milioni di residuo accumulati nel periodo precedente alle sanzioni. Pessimismo eccessivo? Può darsi, ma l’accordo sul nucleare è anche un accordo sul petrolio. Le ire dell’Arabia Saudita infatti non dipendono esclusivamente da motivi politici o religiosi, ma dal pericolo che all’interno dell’OPEC l’Iran recuperi in breve tempo la sua egemonia: per gli Stati Uniti ciò rappresenterebbe anche una ripicca per gli sgarbi diplomatici ed economici subiti dai sultani negli ultimi anni (se proprio lo shale oil deve andare fuori mercato, che almeno non sia solo la petromonarchia ad avvantaggiarsi del fallimento americano).
Per questo la prima preoccupazione degli imprenditori italiani durante l’attuale “luna di miele” riguarda proprio la necessità di “correre” (per usare l’espressione di Riccardo Monti) prima che altri Paesi approfittino del nostro complesso di inferiorità per scavalcarci. Il fatto che il giro di visite in Europa sia iniziato da Roma è di per sé un buon segno, poiché significa che il Bel Paese è tornato a essere un interlocutore privilegiato sia dal punto di vista commerciale che politico. Non solo, infatti, durante la visita degli imprenditori iraniani sono stati siglati accordi preliminari per l’ammontare di 17 miliardi di euro, ma Rouhani si è impegnato personalmente ad appoggiare la candidatura dell’Italia come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU. A porte chiuse il presidente iraniano avrebbe anche pronunciato dichiarazioni di questo tenore:
«Considerateci come un ponte per l’Asia per il vostro Made in Italy, i nostri porti, la nostra rete ferroviaria, sono a vostra disposizione, possiamo diventare una base commerciale della vostra produzione per molte destinazioni internazionali. E vi assicuro che l’Iran si aprirà anche dal punto di vista finanziario, un’occasione per molte vostre banche e assicurazioni, che speriamo venga accolta con favore».
C’è di che essere fiduciosi soprattutto perché l’Italia non ha commesso l’errore di considerarsi Frangistan (il nome tradizionale con cui i persiani indicavano la “Terra dei Franchi”, l’estremo occidente del continente eurasiatico dal quale ogni tanto partiva qualche crociata), cioè rappresentante di un inesistente interesse comune europeo, ma invece ha agito da sola e con il coraggio necessario. Che sia la volta buona?
Da questa prospettiva appaiono decisamente ridicole le polemiche scatenate sulla mancanza di vino alla cena ufficiale o sui nudi scultorei nascosti; in particolare le battutine di certe gazzette francesi e britanniche sono di una doppiezza morale ripugnante: i guardiani del politically correct adesso danno lezioni di libertà? O forse l’islamicamente corretto vale solo nei confronti dei sauditi?
Sulle proteste di parte ebraica, stendiamo un velo pietoso: invece di strumentalizzare per l’ennesima volta la Shoah, sarebbe stato più corretto minacciare ritorsioni commerciali, o anche militari. Si tratta di una confusione di identità e ruoli istituzionali che scredita ulteriormente Israele dal punto di vista diplomatico.
La storia insegna che i periodi più prosperi del rapporto tra Persia e Occidente furono quelli in cui l’Europa era un variopinto agglomerato di regni, repubbliche, corti e potentati. Le ambasciate itineranti dello Scià che giungevano in Europa trovavano ad accoglierle il duca di Mantova (mentre il Doge era impegnato a ricevere gli ottomani), e l’atmosfera romana induceva i diplomatici iraniani del XVII secolo a convertirsi al cattolicesimo. Anche ai tempi l’Italia sapeva muoversi abilmente sullo scacchiere internazionale e non aveva bisogno di alcuna “governante tedesca” per gestire i propri interessi.
È con lo stesso spirito che, mutatis mutandis, durante la Guerra Fredda siamo riusciti ad assumere una posizione di supremazia nel Mediterraneo: oggi questa spregiudicatezza nei confronti delle grandi potenze sopravvive quasi come riflesso condizionato; sfortunatamente essa è soffocata dalla volontà autolesionistica di seguire la linea segnata dai nostri avversari. Ci vorrebbe un po’ di sano machiavellismo (in fondo anche il Fiorentino è uno dei brand più esportati negli ultimi secoli).
Dulcis in fundo, le relazioni culturali; l’iranista Anna Vanzan al “Corriere” ha denunciato il provincialismo degli editori italiani nei confronti della letteratura persiana:
«Nella Repubblica islamica i giovani studiano italiano nelle università pubbliche e private, si traduce molta più letteratura italiana a Teheran – e penso a classici come Dante, Calvino, Moravia, Buzzati – di quanto noi non traduciamo letteratura persiana. […] Culturalmente, l’Italia è provinciale, nel senso che i grandi editori offrono al lettore italiano gli autori extraeuropei solo dopo il successo consolidato sui mercati anglofoni e francofoni».
Come si dice, tout se tient: le nostre tante sudditanze (culturali, politiche, economiche) si influenzano a vicenda. L’importante è cominciare a liberarsene, anche una alla volta.