La vittoria di Donald Trump ha riportato l’intellighenzia americana indietro di almeno trent’anni, ai tempi in cui si stilavano feuilleton pseudo-storici per dimostrare, ad esempio, l’appartenenza di Ronald Reagan dallo stesso milieu culturale di Hitler (lui, da buon uomo di spettacolo, ci metteva del suo).
Nei confronti del nuovo leader repubblicano lo spin doveva essere lo stesso, ma dopo aver compreso che Donald in quanto hitleriano lascia molto a desiderare, si è preferito “gettare il cuore oltre l’ostacolo” verso Mussolini. Tanto per capirci, siamo già al momento in cui Gianfranco de Turris viene citato dal “New York Times” (perché tre anni fa Bannon ha nominato Evola in uno dei suoi comizi).
Per non dire del saggio torrenziale di Jay Griffiths, Fire, hatred and speed! (“Aeon”, 8 febbraio 2017), dove l’autrice, dopo aver confermato che il nazi-spin non funziona più, si lancia in una serie di paragoni tra Marinetti e Pieter Thiel (fondatore di PayPal, uno dei pochi venture capitalist di nuova generazione a non essere aprioristicamente avverso a Trump), Luigi Russolo (sic!), il Camerata Bannon di cui sopra e, dulcis in fundo, d’Annunzio e Milo Yiannopoulos (perché costui aveva come primo nickname su Twitter @Nero). Dato che si parla d’Italia, la Griffiths ci butta in mezzo pure “a touch of the Mafia” e l’Impero Romano, chiamando in causa il culto di Mitra e il Sol Invictus incarnati oggi nel “solar solipsism” di Trump.
Quello che invece la studiosa tralascia di ricordare è che il 28 febbraio 2016 l’allora candidato repubblicano aveva effettivamente citato Mussolini, ritwittando dall’account parodia @ilduce2016 una delle sue storiche frasi: “Meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora”.
"@ilduce2016: “It is better to live one day as a lion than 100 years as a sheep.” – @realDonaldTrump #MakeAmericaGreatAgain"
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 28, 2016
In quella occasione il Presidente si era difeso dagli attacchi col suo solito stile, ricordando in diretta tv che “Mussolini was Mussolini” (tutto a posto, quindi):
A parte tali facezie, credo che dovremo aspettarci quattro anni tutti un po’ così. Riconosciamo del resto che Bannon ne ha sparate talmente tante che al suo confronto Vittorio Feltri è Luciano Rispoli. Devo ammettere che mi ha commosso, vederlo trionfante alla Casa Bianca, col volto conciato da decenni di dipendenza da qualche versione yankee del Tavernello. C’è davvero speranza per tutti: fino a qualche settimana fa sui giornali italiani era tassativamente proibito citare “Breitbart” (effettivamente una fonte sputtanatissima), ora invece ecco Bannon trasformato nel “Dugin di Trump” o roba del genere (peraltro spacciando la bufala che Dugin sia a sua volta il “Rasputin di Putin”).
Il lato inquietante della faccenda è che certi “professori associati”, con i loro modesti (e molesti) sfoggi di erudizione, rischiano di evocare proprio ciò che paventano: son bastati due pezzi per trasformare i riferimenti culturali di Bannon (che prima erano Dick Cheney, Darth Vader e Satana) e Milo Yiannopoulos (4chan e Bannon stesso) in qualcosa di ricercato e affascinante. What’s the point?
E se costoro si mettessero davvero a leggere gli autori che altri credono abbiano letto o, più verosimilmente, se qualcuno creasse una serie di meme ispirati a Evola o Marinetti e li condividesse sul suo profilo Twitter, in tal caso non si correrebbe sul serio il rischio di creare dei “mostri”?
Beh, affari loro, alla fine: perlomeno gli intellettuali d’oltreoceano avranno avuto la possibilità di sfogarsi un po’ dopo l’era obamiana, nella quale era proibita ogni indagine storico-culturale sulle radici del primo Presidente nero (e su quelle dei suoi cortigiani), in quanto rappresentante del migliore dei mondi possibili: la verità, è noto, testimonia se stessa. Per fortuna che ora siamo nella post-verità: finalmente si può ricominciare a riaffermare l’esistenza delle ideologie (e la libertà di sceglierne una rispetto a un’altra).