È singolare che il filosemitismo dell’industria culturale italiana non abbia ispirato non una traduzione, ma anche solo una recensione, del volume Family Papers. A Sephardic Journey Through the Twentieth Century della storica americana -naturalmente di origine ebraica- Sarah Abrevaya Stein (edito da Farrar, Straus & Giroux nel 2019).
Si spera che il motivo non risieda nel fatto che, nella coinvolgente ricostruzione del destino della comunità semita di Salonicco dal dominio ottomano alla Shoah attraverso le vicende della famiglia Levy, l’Autrice si sia imbattuta nella tragica figura di Vital Hasson (nato non si sa quando, ma morto nel 1948), l’unico ebreo in tutta Europa (a parte la collaborazionista olandese Ans van Dijk) a essere stato giustiziato alla fine della Seconda guerra mondiale per aver collaborato con i nazisti.
Vital Hasson, originario di Salonicco, capitale europea dell’ebraismo sefardita, proveniva da una famiglia della classe media che nei secoli aveva dato alla comunità giornalisti, scrittori, insegnanti e agitatori politici. La famiglia Hasson, come la maggior parte dei sefarditi di Salonicco, discendeva dagli ebrei espulsi dalla Spagna nel 1492, che per cinque secoli trovarono casa nell’Impero ottomano e nell’Europa sud-orientale.
Quando la città era ancora ottomana, negli anni 1870 e 1890, il bisnonno di Hasson patrocinò i primi giornali in francese e in lingua giudeo-spagnola (conosciuta come “ladino”); poi la Grande Guerra ridisegnò i confini attorno alla famiglia, trasformandoli da ottomani a greci. L’emigrazione li spinse in molte direzioni: Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, India e Brasile. Hasson stesso per un certo periodo si trasferì in Palestina, ma ritornò nella città natale nel 1933.
A detta di una delle decine di sopravvissuti che avrebbero successivamente testimoniato contro di lui, prima della guerra Hasson «non contava nulla»; quando i nazisti occuparono la città nell’aprile del 1941 questo signor nessuno divenne un “pezzo grosso”. Nel 1943 assurse infatti al ruolo di capo della polizia ebraica locale con un manipolo di duecento uomini non armati a suo servizio, e tra le sue prime iniziative ci fu quella di offrirsi come cacciatore di ebrei.
Nel maggio 1943 Hasson passò dalla zona occupata dai tedeschi a quella occupata dagli italiani alla ricerca di ebrei in fuga verso il Sud della Grecia. Il piano di Vital, che eccedeva i limiti della sua carica ma godeva del consenso di Berlino, era di cercare quegli ebrei che si sospettava le autorità italiane stessero risparmiando dalla deportazione, come le decine salvate dal console Guelfo Zamboni (1897–1994), il quale inviò un giovane ebreo di Salonicco su un aereo militare per avvertire il Ministro degli Esteri della minaccia all’autonomia politica italiana rappresentata dalle attività di Hasson, riuscendo per qualche tempo a contenerlo.
Quando nel 1943 i nazisti cominciarono a costruire ghetti per deportare l’intera popolazione ebraica, quello di Salonicco divenne il regno del terrore di Hasson. Dal marzo all’agosto di quell’anno, circa cinquantamila ebrei su una ventina di convogli passarono per quel ghetto alla stazione ferroviaria adiacente, fino ad Auschwitz.
I sopravvissuti ricordano che Hasson si faceva spazzare la strada da altri ebrei mentre attraversava il ghetto su una carrozza a cavalli. Si aggirava con stivaloni luccicanti per sfondare le porte e prendere a calci i suoi correligionari. Una volta prese la borsa di un uomo e intimò a tutti i confinati di riempirla con i gioielli e il denaro rimasti in loro possesso.
Nelle parole di una sopravvissuta, Bouena Sarfatty, Hasson si comportava «come un leone liberato dalla gabbia». Spesso sceglieva personalmente gli uomini da mandare ai lavori forzati, ma la gran parte della sua crudeltà la riservava alle giovani donne: le faceva spogliare, ne ispezionava i genitali alla ricerca di soldi, strappava loro i capelli, le violentava e le costringeva a prostituirsi.
Il 2 agosto 1943, una deportazione speciale (unico convoglio non diretto ad Auschwitz) condusse a Bergen-Belsen i notabili della comunità ebraica della città (compresa la polizia del ghetto). Tra i deportati anche il padre di Hasson, che rinnegò pubblicamente suo figlio. Poco dopo lo stesso Vital si preparò a fuggire con la moglie, la figlia e l’amante incinta.
Più volte, nei mesi che seguirono, venne riconosciuto dai rifugiati di Salonicco in varie località, anche a Bari, dove l’intelligence britannica lo prese in custodia e lo consegnò al governo greco in esilio al Cairo. Dopo la liberazione della Grecia nell’ottobre 1944, venne infine rimpatriato ad Atene, ma nel caos postbellico riuscì a tornare a Salonicco, dove tuttavia un gruppo di sopravvissuti ad Auschwitz lo riconobbe e dopo averlo pestato a dovere lo consegnò alla polizia greca.
Nell’estate del 1946 Salonicco divenne teatro del processo Hasson, dove i testimoni lo descrissero come «un mostro peggiore dei nazisti». Non ammise i crimini di cui venne accusato, anzi al processo mantenne un atteggiamento piuttosto irriverente, e fino all’ultimo disse di esser stato calunniato ingiustamente. Venne giustiziato nel marzo 1948 assieme a sei comunisti, che rifiutarono invano di esser messi al muro con il “traditore Hasson”, il quale a sua volta chiese di non essere sepolto con loro ma in un cimitero ebraico, per timore di una “contaminazione”.