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Il paragone tra Shoah e immigrazione è anche responsabilità delle comunità ebraiche

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La scrittrice Edith Bruck, ebrea di origine ungherese ma naturalizzata italiana (ha raggiunto il nostro Paese del 1954 dopo un’esperienza deludente in Israele), in veste di “sopravvissuta ad Auschwitz” ha rilasciato un’intervista dirompente al “Corriere della Sera” (Sui migranti ho cambiato idea, non possiamo accogliere anche chi odia gli ebrei, 5 novembre 2023), nella quale, tra le altre cose, afferma quanto segue:

«Per anni, in Italia, abbiamo accolto tutti coloro che arrivavano dal mare. Io stessa dicevo: poveretti, dobbiamo aiutarli. Ma adesso è molto diverso […] Perché l’antisemitismo sta attraversando la Palestina e l’intero mondo arabo. Sono totalmente avvelenati non solo contro Israele ma contro tutti gli ebrei. Hanno imparato e copiato dal nazismo le espressioni più atroci. Dicono: stermineremo tutti gli ebrei, li annienteremo fino all’ultimo. Sono le stesse frasi, esprimono la stessa volontà. Quindi stiamo accogliendo i nostri stessi nemici in casa. Ma vediamo cosa è accaduto in Francia? Quasi otto milioni di immigrati e sono loro i più antisemiti di tutti. […] In mezzo a chi arriva, è facile immaginare che ci siano terroristi, militanti antisemiti. Davvero non so come si possa fare, difficile selezionare chi arriva. Ma far entrare tutti, ora, è assurdo»

Lasciamo da parte gli elogi sperticati, ai limiti dell’estremismo, allo Stato ebraico («L’ebreo è pronto a difendere Israele a tutti i costi: è pronto a farsi ammazzare e, se necessario, ad ammazzare»), nel quale comunque la scrittrice ha deciso di non vivere, e veniamo al punto.

Visto che è stata citata dalla Bruck, partiamo allora dalla Francia: come è noto, questo Paese ha dovuto affrontare l’afflusso di masse di arabi e musulmani (il distinguo è sempre importante) almeno una quarantina d’anni prima del nostro, e le dinamiche con cui le comunità ebraiche transalpine hanno prima plaudito al fenomeno per poi stigmatizzare l’antisemitismo (regolarmente confuso, a torto a ragione, con l’antisionismo) dei “nuovi arrivati”, sono molto simili a quelle che si stanno verificando ora in Italia.

Solo per citare qualche caso (qui un approfondimento), nel 1982 l’organizzazione LICRA (Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme), fondata e gestita da note personalità ebraiche, portò a processo il quotidiano di sinistra “Libération” per aver pubblicato una lettera in cui un immigrato di nome Kamel rivolgeva un appello “a tutti i fratelli arabi” per fare in modo che nessun ebreo si sentisse più sicuro nelle banlieue; sempre negli anni ’80 del secolo scorso, a fronte di una radicalizzazione degli opposti schieramenti (associazioni di ebrei generalmente progressiste contro gruppi filo-palestinesi), l’organizzazione non governativa S.O.S. Racisme, sostenuta tra gli altri da Bernard-Henri Lévy, nonostante il suo attivismo nel dipingere i giovani arabi immigrati come gli eredi dei sopravvissuti all’olocausto, venne tacciata di “sionismo” da una dura campagna stampa delle più importanti testate di sinistra.

Infine, nel 1986, il Comitato Nazionale degli Ebrei Francesi rilasciò un comunicato (pubblicato dalla storica “Agence Télégraphique Juive”) per disapprovare questa tendenza ad equiparare la tragedia della Shoah con l’arrivo massiccio di giovani magrebini nel Paese:

«Con tutta la buona volontà e le migliori intenzioni, non arriverei a stabilire una relazione tra il massacro intenzionale degli ebrei europei dai parte dei nazisti e il rifiuto di accogliere una marea di magrebini prolifici e difficilmente assimilabili che potrebbero sconvolgere in poco tempo tutti gli equilibri della nazione. Per sostenere la loro causa, la sinistra favorevole all’immigrazione di massa mette nello stesso gruppo gli israeliti, francesi da generazioni, poco numerosi e perlopiù professori universitari o grandi industriali, con i milioni d’immigrati attirati dai vantaggi materiali che trovano in Francia».

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Le polemiche dunque esistevano ben prima che la questione dell’islamizzazione delle periferie divenisse un problema di ordine pubblico e di sicurezza nazionale. Per ricordare un esempio, nel 2009 il sociologo -sempre di origine ebraica- Didier Lapeyronnie (1956–2020), denunciò (ironia della sorte, su “Libération”) l’antisemitismo delle banlieue come un “identitarismo del ghetto” sorto in virtù della condizione di migranti dei musulmani di seconda generazione (individuando le cause, dalla sua prospettiva ideologica, più nelle condizioni materiali che non nei condizionamenti culturali):

«[L’antisemitismo delle periferie] non è importato dal conflitto israelo-palestinese. L’attenzione agli eventi in Medio Oriente deriva dal fatto che le persone sono già antisemite, non viceversa. L’antisemitismo è radicato nelle condizioni sociali e nel vuoto politico prevalente in alcuni sobborghi» (qui l’intervento completo).

Allo stato attuale, la situazione è talmente compromessa che sia i rabbini conservatori che gli intellettuali laici e progressisti si rifugiano in un imbarazzato silenzio, mentre quegli ebrei che non possono sostenere il logorio della boboïsation e sono impossibilitati a spostarsi in centro abbandonando i “quartieri difficili” (dove, per intenderci, non è rimasto più alcun francese di “prima generazione”) hanno deciso, almeno a partire dal 2000, di fare Aliyah e “rifugiarsi” direttamente in Israele (dove in molte città sono sorte delle “piccole Parigi” sempre più affollate).

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In Italia, come si faceva notare, tali dinamiche hanno impiegato decisamente meno tempo a emergere, e forse anche per questo si assistono a exploit sempre più netti di rappresentanti della comunità ebraica che non hanno più intenzione di strizzare l’occhio alle sinistre anche solo per riflesso ideologico.

Persino dal punto di vista “istituzionale”, l’ebraismo italiano è passato da una prevedibile incoerenza a giudizi meno sfumati; si pensi a un’altra intervista, sempre per il “Corriere”, rilasciata dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che nel 2018 già affermava che:

«Sui migranti noi ebrei siamo lacerati. La fuga, l’esilio, l’accoglienza fanno parte della nostra storia e della nostra natura. Ma mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare? Purtroppo devo rispondere due no. Per questo sono preoccupato. L’Europa è nata dopo Auschwitz; non vorrei che finisse con un’altra Auschwitz. Non so chi sarebbero stavolta le vittime. So che la migrazione incontrollata può provocare una reazione di intolleranza; ci andremmo di mezzo anche noi, e forse per primi».

Diverso l’approccio dei vari “presidenti” della stessa comunità, decisamente più orientato a un progressismo di facciata. Ricordiamo Riccardo Pac1f1c1, che alle prese con i media nostrani ringraziava quotidianamente gli immigrati per essere arrivati in Italia ad “aiutarci” e tuonava contro ogni iniziativa per porre un limite agli sbarchi, intervistato dalla stampa israeliana esprimeva tesi di ben altro tenore:

«È il momento in cui gli ebrei italiani dovrebbero cominciare a prepararsi lentamente a fare i bagagli per andare in Israele. […] C’è il rispetto della popolazione per gli ebrei, ci sono leggi contro l’antisemitismo e non è facile parlare contro gli ebrei oggi in Europa. Così adesso è importante prendere questa decisione in un momento così buono. […] In 10 o 20 anni, le demografie saranno cambiate in Europa. Il carattere del continente, che è ebraico-cristiano, sarà modificato. […] Come ebrei, per la nostra memoria storica, noi dobbiamo sostenere l’integrazione degli immigranti in Italia e in Europa, [… anche se] i loro sentimenti non sono positivi nei confronti degli ebrei e dei cristiani».

La stessa forma mentis, con riferimento al tema di cui stiamo discutendo e non all’Aliyah in sé, è in parte condivisa da Ruth D u r e g h e l l 0, subentrata qualche anno fa a Pac1f1c1 (e a metà 2023 sostituita da Victor F a d l u n), che non ha mai perso occasione per manifestare il suo sostegno all’arrivo di migliaia di rifugiati in Europa, scomodando in maniera eclatante la memoria olocaustica quando nel settembre del 2015 degli agenti di polizia della Repubblica Ceca, alle prese con centinaia di stranieri poco propensi a lasciarsi identificare, si videro costretti a segnare con un pennarello le braccia di alcuni di essi. Così commento, in veste ufficiale di rappresentante degli ebrei italiani, la D u r e g h e l l 0:

«Gli agenti stanno segnando con un numero sul braccio tutti i rifugiati. È un’immagine che non possiamo sopportare, che riporta alla mente le procedure d’ingresso ai campi di sterminio nazisti, quando milioni di uomini, donne e bambini venivano marchiati con un numero, come animali, per poi essere mandati a morire. Dopo 70 anni da quell’orrore non possiamo restare indifferenti di fronte a una procedura disumana e chi rimarrà in silenzio rischierà di essere complice di questi fatti».

Adesso tuttavia anche la D u r e g h e l l 0 si dice “d’accordo con quando affermato da Edith Bruck” in un’intervista a “Libero” (Sinistra solidale con gli assassini dell’Occidente, 7 novembre 2023):

«La sinistra sostiene di voler tutelare i diritti, ma non ricordo di averla vista scendere in piazza con la stessa intensità di oggi ad esempio per condannare i massacri in Siria, per solidarizzare con le ragazze iraniane, per difendere i gay e le donne palestinesi che rivendicano il diritto a potersi esprimere anche in Palestina. Stavolta, invece, si identificano addirittura con Hamas, gli assassini dell’Occidente. […] C’è una narrazione storica che una parte della sinistra ha sposato dal 1967, abbracciando in toto la causa palestinese. Ma badi bene, sposare la causa palestinese non è ciò che fa Hamas. Non è l’Islam moderato, di cui ho grande rispetto, anche se per la verità lo vedo molto assente. Hamas vuole uccidere, smantellare, sottomettere».

Sussistono in ogni caso dissidi più acuti all’interno del mondo ebraico italiano: si possono osservare le differenze confrontando le prese di posizione della filosofa Donatella Di Cesare, sempre e comunque pro-immigrazione ma al contempo strenua sostenitrice di Israele, e la giornalista Deborah Fait, anch’essa discendente di sopravvissuti ad Auschwitz, con una lunga militanza liberal e contestataria, ma da tempo vicina ad ambienti conservatori, in particolare se c’è da difendere lo Stato ebraico, uno zelo che l’ha portata addirittura a chiedere lo scioglimento dell’ANPI per il suo filopalestinismo e a tacciare di “delirio” la senatrice Liliana S e g r e quando in un’occasione aveva paragonato gli ebrei perseguitati dal nazismo al “ragazzone africano munito di cellulare” (parole della Fait).

A questo punto sarebbe almeno necessario un mea culpa, solo per conferire un minimo di coerenza agli atteggiamenti sempre meno “tolleranti” (per così dire) che inevitabilmente i rappresentanti dell’ebraismo in Occidente dovranno assumere nei confronti dell’immigrazione di massa. A meno che, con la prospettiva (sempre presente, fosse solo a livello ideale) di trasferirsi in Israele, non abbiano anch’essi sposato la tesi che ormai sembra prevalere nell’opinione pubblica israeliana, a destra come a sinistra, e cioè che, dato che l’Europa è “persa”, tanto varrebbe trasformarla in un enorme centro d’accoglienza per i palestinesi e risolvere così la questione in maniera “pacifica”.

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