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Partito Democratico: peggio di un’ebrea -che Allah mi perdoni- un tosco-emilano

Non ho ancora scritto alcunché sulla nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ormai in carica da oltre un anno. Tre passaporti (italiano, svizzero, americano), doppia sessualità (perlopiù tendente al lesbismo) e un retaggio da sinistra al caviale impressionante. Tutto abbastanza scontato, anche se sempre rivelatorio dei tempi. Mi ha colpito tuttavia la “polemica” sulle sue origini ebraiche (il nonno paterno, Herschel Schleyen, una volta giunto negli Stati Uniti da un villaggio di Leopoli cambiò il nome in Harry Schlein), che la Nostra ha voluto risolvere con una dichiarazione piuttosto enigmatica, nel senso che non si è capito se fosse ironica o meno (come è noto, la sinistra non sa memare):

«Per quanto sia orgogliosissima del lato ebraico della mia famiglia paterna, io non sono ebrea, perché come sapete la trasmissione avviene per linea matrilineare. Ma la cosa più folle è il dibattito sul mio naso. Perché non è un “naso ebreo Schlein” che ho ereditato da mio padre, come scrivono i razzisti nella rete. È un naso tipicamente etrusco».

La storia del “naso etrusco”, che suona come una di quelle cose di cui ridono solo i boomer (del tipo uè, profilo greco ecc…) ha generato una quantità di meme non indifferenti, che evito di riportare per non perdermi. Il punto è che, in fondo, l’origine ebraica della Schlein è un non-problema, nel senso che da una parte è l’ebraismo stesso ad aver reso la questione estremamente complessa: il suo accenno alla matrilinearità è infatti giusto, ma concerne solo una prospettiva religiosa, ché dal punto di vista etnico Elly è Zera Yisrael, “seme di Israele”, e avrebbe persino diritto alla cittadinanza israeliana.

Un intreccio simile era peraltro sorto nei riguardi di uno dei suoi predecessori, Nicola Zingaretti, il quale è figlio di una donna ebrea (sfuggita da piccola al rastrellamento nazista del ghetto romano) ma non si è mai considerato ebreo perché non praticante (seppur dalla prospettiva ortodossa da cui parla la Schlein potrebbe esserlo sia religiosamente che etnicamente).

Dall’altra parte, l’unica “criticità” (come si dice oggi) che un’origine ebraica potrebbe far insorgere in ambito medio-progressista riguarderebbe la posizione da tenere nei confronti d’Israele. In tal caso la Schlein mi pare però assolutamente in linea con i dettami piddini: sparare fuoco e fiamme sulla “destra al governo” auspicando che un esecutivo pseudo-laburista esprima il “volto umano” del sionismo.

Le radici israelite, dunque, lungi dal rappresentare un qualche tipo di ostacolo, sarebbero in verità garanzia di assoluta affidabilità per una certa parte politica (ma anche per l’altra, considerando quanto la destra sia alla rincorsa di “sionisti presentabili” per tentare di superare un ormai cronico complesso di inferiorità). Semmai, se si potesse delineare un qualcosa di definibile come un “conflitto etnico” all’interno del PD, esso non potrebbe che riguardare toscani ed emiliani.

Recuperiamo dunque una polemica di qualche anno fa, della quale ho già discusso in altri luoghi, a ridosso della conclusione dell’era prodiana nel centro sinistra e l’inaugurazione del fugacissimo nuovo corso renziano, un passaggio segnato non tanto dall’impalpabile comparsata veltroniana, quanto dall’avvento del bettolese Pier Luigi Bersani (preceduto dall’effimero interregno del ferrarese Dario Franceschini).

Come scrisse Giuliano Ferrara su “Il Foglio” nel gennaio 2010 (Il caro Bersani non è adatto alla guida del Pd),

«[…] Nella sua lunga storia e tradizione politica, il Pci non aveva mai dato il potere di decisione politica agli emiliani, gente seria e operosa, capace di costruire modelli sociali e fare quattrini, capace di irrobustire organizzazioni territoriali, di stabilire un rapporto di fiducia molto forte con la popolazione urbana e delle campagne, di innovare l’economia a partire dal terzo settore cooperativo, buona scuola di governo locale e poi nazionale, ma inetti nella manovra, nella guerra, nella comunicazione politica. I segretari del Pci venivano tutti dal Regno sardo-piemontese, Torino o Genova o Sardegna, e non era una superstizione antropologica. Ai bolognesi, ai modenesi, ai reggiani e ai piacentini toccavano gli onori della parata, e grandi incarichi riservati, ma non il posto di guida. Mai. E questo nonostante fossero il pezzo più forte, pregiato e ricco del Partito comunista».

A rincarare la dose fu poi il compianto Enzo Bettiza (1927–2017), illustre testimone dell’esodo giuliano-dalmata, che in un’intervista al Corriere della Sera di qualche mese dopo, citando peraltro G. Ferrara, affermò apertis verbis che:

«[Bersani] rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane».

Tali testimonianze sono del resto confermare da una semplice scorsa ai notabili del PCI dal 1921 al 1994, lista che peraltro replica l’andazzo nazionale dal 1861 in avanti (Regno di Sardegna & liberalità napoletana): Amadeo Bordiga (nato ad Ercolano, e di origine piemontese da parte di padre), Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer (sardi), Luigi Longo e Camilla Ravera (entrambi di Alessandria), Aldo Tortorella e Giorgio Napolitano (napoletani), Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli e Achille Ochetto (torinesi), Palmiro Togliatti e Alessandro Natta (liguri, sempre Regno di Sardegna).

Dopodiché, come scrive lo storico Walter Dondi, «nel 1996 con la vittoria dell’Ulivo alle elezioni politiche, l’Emilia-Romagna va al governo dell’Italia. È, si può dire, una regione intera che assume un ruolo dirigente nazionale» (cfr. Bologna Italia. L’esperienza emiliana e il governo dell’Ulivo, Donzelli, 1998).

Per quanto posa sembrare paradossale, l’unica eccezione a tale destino da “Emilia grassa e rossa” (o sazia e disperata) sarebbe in effetti rappresentata (ed è il colmo) dallo stesso Bersani, figlio di una Piacenza “ferrigna, aspra e marziale”, sulla quale mi dirozzò anni fa un lettore:

«Non per nulla Piacenza accoglie i radi visitatori con la lupa di Roma e l’ammonimento “quale vigile scolta fra i barbari vinti, Roma qui dedusse nel XX avanti Cristo una colonia militare che nomò Placentia”. Quanto alla piazza principale di tale città, non vi campeggia il classico Garibaldi altrove onnipresente, ma le statue equestri di Ranuccio e Alessandro Farnese, quest’ultimo a suo tempo condottiero dei Tercios asburgici nelle Fiandre».

Ad ogni modo, con la pittoresca “rottamazione” renziana le polemiche di certo non si placarono: il torinese -e olivettiano- Giulio Sapelli, altro osservatore che, seppur integrato nel mainstream, dimostra sempre una certa acutezza, estese i pregiudizi sugli emiliani ai toschi (cfr. Da Tangentopoli a Bersani, ecco il ‘piano’ del Pci-Pd, “Il Sussidiario”, 1 aprile 2013):

«Nel vecchio Pci mai nessun emiliano e toscano era mai assurto alla segreteria politica, alla cuspide del partito, dove regnavano da sempre torinesi e romani con qualche sarda e nobile inserzione. I toscani e gli emiliani erano le furerie addette ai carriaggi e alla manutenzione del sistema burocratico e amministrativo locale e nazionale. Esseri di serie B: ammirati ma distanziati dalla politica di largo respiro. Addetti al finanziamento e alla propaganda. Costoro, i rifiutati, erano considerati utili idioti -in senso tecnico, appunto-, quasi i componenti della cosiddetta sinistra indipendente, i quali dovevano solo e sempre loro fornire tecnici e pontieri a un partito operaista e di competenze umanistiche piuttosto che economiche. E dovevano offrire in primo luogo legittimazione borghese a un partito che tutto era meno che borghese».

Tenendo a mente, en passant, che la Toscana venne coinvolta dal “cazzaro di Rignano” perlopiù nel versante labronico, probabilmente per i noti agganci con oscuri potentati nazionali e ineernazionali, si può ammettere che dopo la débâcle a tutto tondo del “bomba” e l’improponibile transizione da renzismo a post-veltronismo (Orfini, Zingaretti, Letta), sia stata proprio Elly Schlein la svolta più spazziante: eletta, sostanzialmente, da sostenitori esterni al Partito Democratico (i cui appartenenti piuttosto desideravano nostalgicamente tornare nel rassicurante alveo emiliano rappresentato da un Bonaccini), è un’espressione quasi stereotipata di quel “massimalismo radicale” che campa di provocazioni, più di forma che di contenuto, su temi come l’immigrazione, l’ecologia, i diritti delle minoranze sessuali o la sicurezza pubblica, scegliendo sistematicamente la posizione meno favorevole ai propri stessi elettori (i cui interessi, è evidente, non ha alcuna intenzione di difendere).

È probabile che una creatura come la Schlein sia allo stato attuale l’unico compromesso accettabile con una tendenza che imporrebbe al PD, per pura coerenza, di installare un segretario di origine non autoctona (i tre passaporti di Elly, con un quarto israeliano potenziale, fanno da surrogato cosmopolita al prossimo venturo “italiano di seconda generazione”) e dalla sessualità fluida e cangiante (in tal caso il lesbismo è obiettivamente una versione moderata del transessualismo).

Al momento ciò compenserebbe la deriva del partito verso un’entità la cui nazion non sarà più tra feltro e feltro (cioè Feltre e Montefeltro, per quasi un millennio confini della pura razza italica), ma un melting potespressione di per sé compromettente– di facce strane, facce meticce di razze nuove (sulla cui bellezza un po’ disarmante ci sarebbe molto da ridire).

PS: Il titolo del post fa riferimento a un meme ispirato ai famigerati “screenshot del MEMRI”, cioè il Middle East Media Research Institute, organizzazione israelo-americana che mappa i media arabi generando di sovente effetti involontariamente comici. In tal caso, un’intervista a un esponente di Hezbollah viene trasformata, da qualche mematore filoserbo, in un’improbabile condanna del popolo albanese dipinto (ma è impossibile) come peggiore di quello ebraico. Si tratta dunque solo di un meme e non di un’espressione di antisemitismo o toscoemiliofobia.

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